di Luca Chierici foto © Fabrizio Sansoni
La scelta temporale che cade sull’anno 1718 è il vero filo conduttore che lega due delle più importanti realizzazioni del Festival della Valle d’Itria di questo 2018, a trecento anni esatti da quella data. A distanza di pochi giorni, infatti, nella capitale musicale di quei tempi, Napoli, si rappresentano due lavori che più che somiglianze artistiche evocano la complessità e la raffinatezza, la varietà di un linguaggio proprio di quel teatro d’opera che era destinato a caratterizzare per lungo tempo la vita culturale della città partenopea e per esteso il mondo musicale di allora.
L’importazione di un’opera di Händel, il Rinaldo, che era stato eseguito per la prima volta a Londra nel 1711, è fatto per nulla improbabile e strano in un contesto che il giovane sassone aveva accolto trionfalmente dopo il periodo di apprendistato romano. Il futuro autore del Messiah (1685 – 1759) trascorre in Italia gli anni formativi e di inizio sorprendente di una gloriosa carriera artistica. Si tratta del periodo che va dal 1707 al 1710, e nel 1712 il compositore si trasferisce definitivamente in Inghilterra, in quella Londra dove un anno prima era appunto stato rappresentato il Rinaldo. È ipotesi accreditata il fatto che lo spartito haendeliano sia stato trafugato a Napoli qualche anno dopo dal famoso castrato Nicolini, e anche se di questa versione napoletana di Rinaldo si sapeva solamente attraverso il libretto a stampa, nessuna testimonianza esisteva delle parti musicali aggiunte da Leonardo Leo, delle cosiddette “arie di baule” imposte dai cantanti ingaggiati a Napoli o di altre contaminazioni. La recente scoperta in Inghilterra (2012) di un manoscritto contenente una buona metà dei pezzi che compongono questo “pasticcio” ha incoraggiato il giovane musicologo Giovanni Andrea Sechi a un lavoro estremamente complesso di ricostruzione di quello che si potrebbe definire una delle tante possibili varianti di questo Rinaldo napoletano, che diventa dunque la sommatoria di tasselli presi da Händel, Leo e da altri autori che vanno da Vivaldi a Sarro. La scelta compiuta quest’anno dal Festival nella persona del proprio Direttore artistico Alberto Triola riposa quindi innanzitutto su una motivazione scientifica, che premia gli sforzi di Sechi, subito interessato alla riscoperta del manoscritto, ma è anche occasione per fotografare un momento di vivissima partecipazione collettiva all’adattamento del lavoro haendeliano per le scene partenopee. Rinaldo, in questa veste composita, va in scena per un pubblico di pochi eletti il primo di ottobre 1718 a Palazzo Reale, complici i festeggiamenti per il compleanno di Carlo VI d’Asburgo. La storia del recupero e soprattutto la complessa descrizione dei tasselli che vanno a formare il pastiche confezionato da Leo a partire dal Rinaldo è davvero intricata e tutto sommato non risolta del tutto neanche oggi, giacché non si sono recuperate tutte le parti (ad esempio quelle dell’intermezzo buffo, che è stato affidato in forma solo recitata a due bravissimi attori) e il lavoro di identificazione delle parti aggiuntive rispetto al testo di Händel è proceduto attraverso mille difficoltà. Quindi, a ben vedere, anche dal punto di vista strettamente scientifico il recupero operato da Sechi non raggiunge una compiutezza assoluta (ammesso che questo tipo di lavori, nati appunto sotto forma di contaminazione, possano ambire a una versione definitiva).
A sottolineare la poliedricità dell’ambiente musicale napoletano è il recupero a Martina Franca della seconda opera, Il trionfo dell’onore, l’unico lavoro buffo di Alessandro Scarlatti, autore che a Napoli era considerato figura di primo piano e che rappresenta una scuola da un lato ben più ancorata al passato rispetto agli estri haendeliani, dall’altro partecipe del nuovo genere della commedia dialettale, qui peraltro rivisitata profeticamente in lingua italiana dal librettista Francesco Antonio Tullio. L’opera di Scarlatti va in scena per la prima volta poco tempo dopo la data del Rinaldo, il 26 novembre 1718 al Teatro dei Fiorentini, conosce un notevole successo ma scompare poi per riapprodare a una esecuzione abbreviata e in un certo senso sperimentale promossa dalla Rai di Milano nel 1950 con la direzione di Giulini.
La messa in scena di due lavori di questo tipo porta oggi ad affrontare difficoltà non da poco, soprattutto se nel caso haendeliano si vuole (o si deve) rinunciare a costosissimi allestimenti che puntano sul decoro sfarzoso e sulla ricostruzione di architetture imponenti o all’uso di macchine sceniche complesse. Altrettanto difficile è la scelta dei solisti di canto, con l’ovvia risoluzione finale che porta a puntare sulle eccellenze oggi disponibili e su forze più giovani dedite allo studio della pratica teatrale barocca, come accade all’Accademia del Festival intitolata a Rodolfo Celletti.
Nel Rinaldo tutta una tradizione, anche non molto lontana nel tempo, di regie che puntavano sullo stupore della ri-creazione di un mondo narrato dalle antiche Chansons, dall’Ariosto e dal Tasso è stata spazzata da via da una scelta radicale quanto assai discutibile di Giorgio Sangati che ha risolto l’individuazione dei personaggi principali con la scelta di altrettanti divi della musica pop-rock (dal Freddy Mercury del protagonista a Madonna, Elton John, Gene Simmons). Il luogo tipico delle Crociate, ossia lo scontro tra Cristiani e Infedeli è ridotto quindi a diatriba tra bande ma alla fine l’elemento conduttore dell’allestimento si riduce al lato descrittivo dei personaggi (quindi in realtà ai costumi sgargianti di Gianluca Sbicca), con una regia effettiva che lascia poco spazio all’invenzione e che è sorretta da una scenografia statica (firmata da Alberto Nonnato) che non aiuta certo l’occhio a distrarsi lungo i tre lunghi atti che hanno portato lo spettacolo ad inoltrarsi in ore notturne.
Ben diverso è stato l’esito nel caso dell’opera di Scarlatti, dove il regista (o meglio i quattro registi che lavorano nella compagnia Eco di fondo, Giacomo Ferrù, Libero Stelluti, Giulia Viana e Michele Balistrieri) ha inventato un canovaccio autonomo che rendeva più leggibile l’intricato plot originale, pur derivato da quello di Tirso de Molina e noto ai più attraverso il celeberrimo Don Giovanni mozartiano. Ne è uscito un quadro di gusto vivace che ha saputo riprodurre la veridicità dell’azione che tanto aveva divertito ed emozionato i contemporanei, complice anche la cornice del bellissimo frontale dell’antica Masseria Palesi scelta come luogo alternativo al cortile del Palazzo Ducale di Martina Franca, utilizzato per la più “nobile” opera haendeliana. In questo contesto molto apprezzato è stato il lavoro dello scenografo Stefano Zullo e della costumista Sara Marcucci.
Sul fronte della realizzazione strumentale si è puntato in entrambi i casi su ensemble dedicati alla musica barocca : il complesso La scintilla composto nel 1996 da parti dell’Orchestra dell’opera di Zurigo nel caso del Rinaldo e un complesso molto più ridotto per l’opera di Scarlatti, diretto con entusiasmo da Jacopo Raffaele. Il Rinaldo si avvaleva della presenza di un direttore esperto e “martinese” come Fabio Luisi, che ha tardato però a imprimere al discorso un certo carattere di scelta autonoma, come se egli all’inizio si trovasse in contrasto tra una lettura intimistica e il ricorso a uno stile haendeliano d.o.c. fatto tutto di ritmi puntati e di furori strumentali.
Che si voglia o meno, gran parte dell’interesse del pubblico era però diretto verso le compagnie di canto e in questo caso diremmo che le attese non sono state deluse, soprattutto nel caso del Rinaldo (dove era più che ovvia l’importanza del lato virtuosistico dei ruoli) mentre in Scarlatti si sono apprezzate anche le qualità attoriali dei protagonisti.
Rinaldo di bravura e temperamento eccezionali è stata Teresa Iervolino, che in questa versione sostituiva come contralto la parte originalmente affidata al castrato Nicolini. La sua performance, caratterizzata visivamente dal giallo intenso del costume di “Freddy Mercury”, è stata applauditissima e ha in parte attenuato le ovazioni per l’Armida di Carmela Remigio, soprano altrettanto pregevole vocalmente e scenicamente. Al loro cospetto brillavano di minor luce la pur brava Loriana Castellano, Almirena di buon spessore vocale e scenico, l’Argante di Francesca Ascioti, l’Eustazio di Dara Savinova. Poco espressivo e di gran lunga vocalmente meno dotato dei colleghi era Francisco Fernàndez Rueda nel ruolo di Goffredo.
Il trionfo dell’onore ha visto impegnato con particolare efficacia nel ruolo del protagonista (il dissoluto Rodolfo Albenori) Rachel Jane Birthisel, allieva dell’Accademia come lo erano Erica Cortese, Federica Livi, Suzana Nadejade, Francesco Castoro, Nico Franchini e il particolarmente bravo Patrizio La Placa (nel ruolo di Rodimarte). Ma la star della serata era certamente il controtenore Raffaele Pe (Erminio), che esibiva una marcia in più rispetto al resto della compagnia sia per questioni di esperienza ma soprattutto grazie a un timbro vocale e a una emissione di rara bellezza e intensità.