di Gianluigi Mattietti foto © Aline Paley
Il festival di Verbier ha festeggiato quest’anno il suo XXV anniversario: un quarto di secolo durante il quale la musica è diventata quasi parte integrante del paesaggio alpino del Canton du Valais, tra boschi e funivie, chalet di legno e alpeggi. A Verbier, i concerti cameristici sono ospitati in un piccola chiesa, quelli sinfonici alla Salle de Combins, grande tendone ricoperto recentemente con un nuovo tetto in resina isolante, che ripara un po’ meglio dal rumore della pioggia. I concerti alla Salle de Combins sono anche trasmessi sulla piattaforma medici.tv e ripresi con dodici telecamere e una sofisticata regia, che permette anche al pubblico in sala di “vedere” l’esecuzione attraverso due grandi schermi posti ai lati dell’orchestra, cogliendone dettagli e interessanti primi piani. La Verbier Festival Orchestra (VFO), guidata dal suo nuovo musicale, Valery Gergiev, ha aperto e danze con Shéhérazade di Rimski-Korsakov, cavallo di battaglia del direttore russo, che ha giocato più su sfumature e tinte pastello che su colori accesi e guizzi virtuosistici, cercando un suono orchestrale sempre caldo e sensuale. La varietà di colori, l’ha invece esibita nel Dittico sinfonico di Rodion Shchedrin, pezzo del 2008, concepito come un collage di momenti contrastanti, tratti dall’opera Il viaggiatore incantato (da Nikolaj Leskov). Il resto del concerto era un pot-pourri di musiche per solista e orchestra, destinate all’esibizione di giovani emergenti nello star system musicale. Il violinista Daniel Lozakovich, nato nel 2001 a Stoccolma ma di origini bielorusse, medaglia d’argento al concorso Menuhin nel 2014, già adocchiato da Gergiev, e già sotto contratto con la Deutsche Grammophon (con la quale ha inciso da poco i concerti di Bach), si è cimentato con un pezzo di bravura come Introduction et Rondo capriccioso di Saint-Saëns, sfoggiando un suono pulitissimo, ma cogliendo anche, con eleganza, la varietà di contrasti e di umori della partitura. Il soprano sudafricano Pretty Yende, allieva nel 2011 dell’Accademia della Scala, già affermata interprete rossiniana (ad agosto canterà a Pesaro in Ricciardo e Zoraide), ha fatto solo intravedere le sue doti di coloratura in «Glitter and be Gay» da Candide di Bernstein. Grande personalità e maturità ha sfoggiato il pianista cinese George Li (nato a Boston nel 1995, da genitori cinesi, medaglia d’argento al Concorso Čaikovskij del 2015, sotto contratto con la Warner che ha recentemente inciso il suo “debut cd”), ha affrontato il primo Concerto per pianoforte di Mendelssohn, mettendone in risalto la freschezza inventiva, facendo emergere la parte pianistica con autorevolezza e plasticità di fraseggio.
Tra gli eventi clou del festival c’è stata La Creazione di Haydn diretta da Gábor Takács-Nagy, direttore ungherese di casa a Verbier (è stato anche violinista di fama, fondatore del celebre Quartetto Takács), che ha confermato le doti dimostrate in precedenti occasioni: la finezza stilistica, i tempi scattanti, una lettura sempre trasparente, un suono asciutto, pungente e leggero, l’omogeneità timbrica, con i legni sempre in bella evidenza (forse anche per una certa esilità degli archi), le sortite strumentali cariche di lirismo. In questa esecuzione si è ammirata anche la forza descrittiva della lettura di Takács-Nagy, cui hanno contribuito anche l’ottima prova del coro (il RIAS Kammerchor) e dell’intero cast: Miah Persson (Gabriel nelle prime due parti, Eva nella terza) sfoggiava una voce morbida e avvolgente, senza enfasi, ma toccante, capace di esaltare il melodizzare vocale haydniano; caratteri analoghi aveva Peter Mattei (Adamo, nella terza parte), con il suo canto nobile, elegantissimo, che incontrava la voce di Eva nel duetto finale «Holde Gattin…» in una perfetta fusione timbrica, piena di pathos; bravissimo anche il tenore Bernard Richter (Uriel), dalla voce non altrettanto bella (e con acuti un po’ forzati), ma dotato di una tecnica invidiabile, di un ottimo legato, e grande musicalità; mentre il basso Andreas Bauer (Rafael), poderoso, espressivo, dai gravi cavernosi, appariva un po’ troppo cupo, e fuori stile rispetto al raffinato belcantismo dei suoi colleghi.
Il fascino di Verbier è anche legato ai concerti cameristici che mescolano grandi nomi e giovani promesse, con un repertorio molto vario, e alle molteplici attività dell’Accademia, che negli anni ha contribuito a formare musicisti di fama mondiale (si parla di una “Generazione Verbier”). Tra i professori dell’Accademia c’è Sergei Babayan, pianista armeno allievo di Pletnev, poi maestro di Trifonov, uno dei pilastri del Fetival, che anche quest’anno si è esibito in diversi concerti. Da solista, ha eseguito alcune suites di Rameau ed estratti dal Klavierbüchlein di Bach con uno stile molto musicale, attento ai momenti cantabili, ma davvero datato, poco clavicembalistico, quasi “vintage”. Ha giocato molto meglio le sue carte nei concerti cameristici, eseguendo ad esempio, insieme a Kristóf Baráti e Mischa Maisky, il Trio op.67 di Šostakovič, restituendone il tono dolente ed elegiaco, quasi di un grande lamento funebre (il compositore lo dedicò alla memoria dell’amico musicologo Ivan Sollertinskij), differenziando timbricamente i quattro movimenti, sottolineando con foga lo humor amaro dello scherzo, e l’incedere da danza macabra con venature klezmer del finale. Babayan ha poi eseguito il giovanile Quintetto op.14 di Saint-Saëns (insieme a Kristóf Baráti, Alexandra Conunova, Diemut Poppen e Andrei Ioniţă), dove il pianoforte gioca un ruolo virtuosistico spesso in contrapposizione con gli archi, facendone emergere l’intenso lirismo e la grande fantasia inventiva. E quindi il raro Sestetto op.37 di Ernö Dohnányi (con l’aggiunta del clarinettista Aleksandar Tasić e del cornista Ben Goldscheider), uno degli ultimi lavori del compositore ungherese, caratterizzato da un vasto campionario di stili di umori, dalla marcia militare al valzer, con continui cambi di tempo, di tonalità, di colore, intessuti senza soluzione di continuità in un ordito strumentale assai duttile, con un continuo gioco di innesti e transizioni tematiche. Vivida e gioiosa l’esecuzione, che mostrava, qui come in altri casi, la freschezza del “suonare insieme” di solisti che si ritrovano insieme per l’occasione. Mancava ovviamente la precisione, il bilanciamento tra le parti, il raffinamento stilistico, che solo un ensemble stabile può garantire.
Molti dei solisti che si esibiscono a Verbier sono stati in passato allievi dell’Accademia. Tra questi c’era Alexandra Conunova, trentenne violinista moldava, allieva di Petru Munteanu, Krzysztof Wegrzyn, Renaud Capuçon, vincitrice del Concorso Joachim nel 2012 e del Julius Bär Prize nel 2013 (proprio come miglior artista dell’Accademia). Il suo suono duttile, bellissimo, si unisce a una tecnica raffinata e a un controllo che le permetteva di affrontare brillantemente repertori molto diversi. Insieme all’eccellente Denis Kozhukhin (pianista russo ma residente, come lei, in Germania), ha interpretato con grande poesia la Sonata op.30 n.1 di Beethoven e la Sonata op. 78 di Brahms. Ha dimostrato grande personalità nella sonata n.2 di Ravel, eseguendo con nitidezza ogni virtuosismo, come le note sgranate a tutta velocità nel finale, e caratterizzando molto bene gli ammiccamenti stilistici, gli “esotismi”, il gioco ironico con gli archetipi formali ed espressivi della tradizione. La Conunova è parsa infine dominare la Sonata n.1 di Prokofiev (ha da poco inciso le due sonate per Aparté), sottolineandone il linguaggio eloquente e pieno di scabrosità melodiche, affrontando con sicurezza i passaggi più impervi e le corde doppie, modellando il suono in una ricca gamma di dettagli timbrici ed espressivi, nelle atmosfere desolate, nelle scale veloci e leggere, nel canto rauco e supplichevole, nei momenti algidi e in quelli pomposi, fino alla scarica di energia pura nelle battute finali.