di Stefano Martinella foto © Patrick Pfeiffer per WLB
Quella dello scorso luglio è stata la trentesima edizione del festival dedicato a Rossini da Bad Wildbad, la cittadina della Foresta Nera che nel 1856 ebbe la ventura di ospitare il Maestro, alla ricerca di ristoro nelle sue acque termali. Il Rossini in Wildbad Belcanto Opera Festival, inaugurato nel 1989 con La scala di seta, ha saputo conquistarsi nei suoi tre decenni di vita un ruolo di primo piano non solo per la riproposizione di opere tra le meno rappresentate del Maestro (ha per esempio riproposto negli anni ben due diverse esecuzioni di Eduardo e Cristina, opera che difetta di edizione critica e che ancora deve approdare sui palcoscenici di Pesaro) ma anche per l’attenzione rivolta ad autori attivi nei medesimi anni del compositore. E anche se talvolta i risultati, inficiati da limitate risorse economiche e da spazi scenici non sempre adatti, si sono rivelati al di sotto delle aspettative, meravigliano e commuovono ogni anno l’entusiasmo e lo spirito che animano ogni proposta.
L’impegno più oneroso di questa edizione è stato sicuramente l’allestimento di Moïse et Pharaon
L’impegno più oneroso di questa edizione è stato sicuramente l’allestimento di Moïse et Pharaon, terzultima opera del catalogo rossiniano, composta nel 1827 per l’Opéra di Parigi. Come è noto, per il suo secondo grand-opéra Rossini rielaborò gran parte del materiale già presente nel Mosè in Egitto, l’oratorio composto nove anni prima per il San Carlo, i cui pezzi vennero in parte rimodulati e spostati da un atto all’altro, cuciti con brani di nuova composizione e con due piccoli inserti provenienti da Armida e Bianca e Falliero (ma al rossiniano attento non sfugge anche una fugace suggestione di Ermione nel finale terzo). L’edizione proposta a Bad Wildbad si basava sullo spartito stampato a Parigi nello stesso 1827 dall’editore Troupenas: spiace, specie nel contesto di un festival dedicato a Rossini, dover registrare il taglio del secondo dei tre ballabili, evidentemente dettato dalla mancanza di un corpo di ballo e dalle dimensioni davvero ridotte dello spazio scenico a disposizione. Più complessa la questione del Cantique finale, la preghiera di ringraziamento intonata dagli Ebrei dopo la chiusura delle acque del Mar Rosso: il brano venne probabilmente tagliato già in occasione della prima rappresentazione parigina, probabilmente a causa di problemi tecnici legati all’allestimento scenico, e non venne inserito nello spartito Troupenas né nella versione italiana dell’opera, di fatto quella che circolò per i teatri del mondo sino a non molti decenni fa (l’unica esecuzione del brano risulta essere quella avvenuta a Pesaro in occasione dell’allestimento dell’opera nel 1997). Anche a questo proposito, un festival consacrato al Maestro avrebbe dovuto optare per l’esecuzione del coro, specie per l’analogia – ben delineata da Reto Müller nelle pagine del programma di sala – con il finale di Guillaume Tell. Per la cronaca, la locandina annunciava l’esecuzione del Cantique, in una nuova edizione critica curata per Festival da Aldo Savagno: non è dato sapere con certezza a chi imputare la scelta del taglio.
A guidare il Góreki Chamber Choir, l’orchestra dei Virtuosi Brunenses (istituzione del festival) e i solisti era Fabrizio Maria Carminati. Il direttore è riuscito nell’impresa, tutt’altro che semplice, di guidare a compimento l’imponente partitura rossiniana; la concertazione, precisa ed estremamente chiara, ha sorretto in ogni punto orchestra e voci, con un buon equilibrio di dinamiche e suoni in grado di esaltare in particolare i momenti più solenni (davvero notevole, per esempio, il celebre coro del quarto atto). Sul versante vocale si sono distinti in particolar modo il tenore Randall Bills nelle vesti di Amènophis e Silvia Dalla Benetta in quelli di Sinaïde; buone le prove di Baurzhan Anderzhanov interprete di Osiride e di Elisa Balbo quale Anaï; apprezzato Patrick Kabongo nella piccola parte di Éliézier, mentre un po’ meno convincenti si sono rivelati il protagonista Alexey Birkus quale Moïs e il Pharaon di Luca Dall’Amico.
Lo spettacolo di Jochen Schönleber, direttore artistico del festival, era giocato su pochi elementi architettonici fissi, sfruttati con intelligenza per l’ingresso e la sortita dei personaggi: di scarso significato, per non dire sostanzialmente inutile, la presenza di un enorme libro (a simboleggiare le Sacre Scritture) presente in diverse scene e il ricorso alla proiezione di filmati, talvolta legati alla storia del popolo ebraico, talvolta alla Parigi degli anni del Maestro. Interessante è parsa la soluzione, dettata dalle contingenze cui si accennava sopra, di affidare al coro l’esecuzione di parte dei ballabili superstiti.
Presso il delizioso piccolo Kuhrtheater sono invece state allestite La cambiale di matrimonio e L’equivoco stravagante
Presso l’altro spazio del festival, il delizioso piccolo Kuhrtheater, sono invece state allestite La cambiale di matrimonio, diretta da Jacopo Brusa e con una discussa regia di Lorenzo Regazzo (che purtroppo non ci è stato possibile ammirare), e L’equivoco stravagante. Quest’ultima opera, la terza composta da Rossini, andò in scena nel 1811 presso il Teatro Del Corso di Bologna ma venne ritirata dalla censura dopo la terza rappresentazione per la scabrosità del libretto di Gaetano Gasbarri, infarcito di doppi sensi a sfondo erotico benché camuffati in un linguaggio paludato e altisonante. L’equivoco, che dovette attendere la riesumazione avvenuta al San Carlo solo nel 1974, continua a godere di pessima fama anche tra i rossiniani, che l’accusano di scarso senso teatrale; tralasciando il dibattito, il versante musicale è comunque denso di pagine di altissima qualità, alcune delle quali furono prelevate da Rossini e inserite l’anno successivo nella Pietra del paragone, opera che segnò il debutto del musicista al Teatro alla Scala.
La compagnia di canto ha visto spiccare la notevole prova di Antonella Colaianni nei panni contraltili della protagonista Ernestina, prima delle parti scritte da Rossini per la leggendaria Marietta Marcolini; accanto a lei Emanuel Franco, brillante Buralicchio, Giulio Mastrototaro come Gamberotto, la giovane Eleonora Bellocci come Rosalia, Patrick Kabongo come Ermanno e Sebastian Monti quale Frontino. A reggere le redini dello spettacolo José Miguel Pérez-Sierra, presenza fissa presso il festival della Foresta Nera, che ha staccato tempi perlopiù sostenuti mantenendo sempre viva la tensione ritmica; buona in particolare la prova del reparto maschile del Góreki Chamber Choir impegnato nell’opera.
Lo spettacolo, anche questo curato da Jochen Schönleber, giocava – ma nemmeno poi troppo – sul carattere sguaiato del libretto e sui suoi giochi di parole, la maggior parte dei quali presumiamo sfuggiti agli orecchi del pubblico tedesco: ne usciva un allestimento grazioso e buffo, incentrato perlopiù sulle spiccate doti recitative dei protagonisti e su qualche simpatica controscena a opera del coro.
Estremamente più ambiziosa era invece la scelta di proporre anche due esecuzioni in forma concertante di Zelmira.
Estremamente più ambiziosa era invece la scelta di proporre anche due esecuzioni in forma concertante di Zelmira. L’opera, l’ultima del settennato napoletano di Rossini, andava in scena al San Carlo nel febbraio 1822, ma era stata probabilmente composta già in previsione della trasferta viennese dei complessi napoletani organizzata da Domenico Barbaja (che si apriva proprio con Zelmira, il 13 aprile dello stesso anno, presso il Teatro di Porta Carinzia). Opera complessa e monumentale, Zelmira, nella quale il linguaggio maturato a Napoli da Rossini giunge ai livelli estremi: in un dramma insolitamente ricco di azione, quasi un vero e proprio thriller ante litteram, il Maestro regala costruzioni musicali di enorme ampiezza, con sorprendenti squarci sinfonici ma legata a un virtuosismo vocale che evidentemente spingeva ai limiti estremi la gloriosa compagnia del San Carlo, in cui agivano Isabella Colbran, Giovanni David, Andrea Nozzari, Anna Maria Cecconi, Antonio Ambrosi e Michele Benedetti.
La compagnia di canto richiesta è infatti di altissimo livello: l’esecuzione di Bad Wildbad ha potuto contare di fatto soltanto sul versante femminile, che schierava Silvia Dalla Benetta, uscita vincitrice dall’impervia parte della protagonista, e la raffinata Emma di Marina Comparato, gratificata dalla presenza dell’aria Ciel pietoso composta da Rossini in occasione della menzionata trasferta viennese. Sostanzialmente deludenti sono infatti state le prove dei due tenori, cui Rossini destina (nel primo atto) tre arie di crescente e funambolica difficoltà: il tenore turco Mert Süngü, già Paolo Erisso nel Maometto secondo dello scorso anno, avrebbe potuto dimostrarsi valido interprete di Antenore, anziché ritrovarsi limitato nella acutissima parte di Ilo; Antenore era invece il giovane Joshua Stewart, dotato di una voce di notevole ampiezza ma decisamente ancora non adatta a ricoprire il ruolo baritenorile cucito da Rossini sul mitico Nozzari. Scarso entusiasmo hanno suscitato anche le prove di Federico Sacchi come Polidoro e Luca Dall’Amico quale Leucippo. A fronte di queste considerazioni, pare discutibile la scelta di aver optato per il finale parigino (composto per le recite dell’opera al Théâtre-Italien del 1826) che in qualche modo riduce il ruolo della protagonista che viene in parte usurpata del rondò conclusivo.
Elemento di maggior effetto dell’esecuzione era senza dubbio la direzione di Gianluigi Gelmetti, che si dimostra una volta di più – repetita iuvant – uno dei direttori ideali per il Rossini serio: la sua lettura dell’opera è stata infatti poderosa e trascinante, drammatica e solenne negli insiemi e nei concertati, vorticosa nei brani d’agilità e di estrema raffinatezza nelle pagine più liriche.
In occasione del centocinquantesimo anniversario della scomparsa del Maestro, il festival di quest’anno era interamente dedicato al compositore: tra le altre iniziative si segnalano due esecuzioni della Petite Messe Solennelle (nella versione cameristica) dirette da Antonino Fogliani e una serie di concerti Rossini & Co., che hanno visto in scena giovani cantanti allievi delle masterclasses tenute da Lorenzo Regazzo: per quello del 28 luglio si segnalano Maria Rita Combattelli, Eleonora Bellocci, Roberto Maietta e Baurzhan Anderzhanov, peraltro già impiegati nelle parti meno impegnative delle opere rappresentate.