L’anniversario rossiniano culmina a Pesaro con spettacoli gremiti e un botteghino milionario. Ricciardo e Zoraide, Adina e Il barbiere di Siviglia sono gli applauditi titoli di quest’anno, mentre fioccano già le anticipazioni sulla quarantesima edizione del prossimo
di Francesco Lora foto © Amati Bacciardi
Mentre si celebra il 150° anniversario della morte del Cigno di Pesaro, il Rossini Opera Festival ha un bel modo di annoiare il proprio pubblico: anche quest’anno un record di presenze e incassi (18.300 biglietti strappati, con un 67% di spettatori stranieri accorsi da ben 45 nazioni differenti; 1.392.000 di euro al botteghino, più la spinta all’economia cittadina: con la cultura si mangia eccome). Alla lusinga della matematica corrisponde l’intelligenza del progetto. Mentre in superficie pullulano ovunque le celebrazioni rossiniane, infatti, l’antico entusiasmo della renaissance va per contro affievolendosi: nel mondo gli allestimenti di opere di Rossini paiono diminuire, tornano a riguardare e spremere soprattutto i titoli più popolari, tendono viepiù a prescindere dai necessari interpreti specialisti. Occorre allora smettere di confidare nell’antica rendita, e mettere a punto una coraggiosa strategia di rilancio. Con la strategia attuata nell’edizione conclusa, il ROF vince nei numeri e sorprende nell’idea. Tra le ventuno alzate di sipario sciorinate dall’11 al 23 agosto, i tre principali spettacoli d’opera hanno fatto la parte del leone. I primi due titoli erano accomunati sia dal compiere 200 anni tondi, sia dall’essere tra le partiture oggi meno frequentate di Rossini: la commovente farsa Adina e il cavalleresco dramma Ricciardo e Zoraide dall’altra; ebbene: il pubblico ha gremito qui il Teatro Rossini e là l’Adriatic Arena, rinnovando all’istituzione il vecchio e meritato patto di fedeltà. Discorso in parte opposto per il terzo titolo; noto, troppo noto: Il barbiere di Siviglia; al sentirlo nominare, il melomane dal palato fino si scansa: lo si rappresenta ovunque e – in nome di quella particolare forma di trasandatezza e pigrizia chiamata tradizione – quasi sempre all’insegna di una placida sciatteria; ebbene: chi già si era persuaso a rinunciare allo spettacolo meno ricercato della rassegna ha dovuto ricredersi, e supplicare in biglietteria uno strapunto all’Adriatic Arena, pur di non perdere una lettura che fa scoprire come per la prima volta un lavoro inflazionato. Queste sono le virtuose premesse al più puntuale resoconto su ciascuno spettacolo, mentre già si sa qualcosa circa la quarantesima edizione del ROF (8-20 agosto 2019): Semiramide con direzione di Michele Mariotti e regìa di Graham Vick, L’equivoco stravagante con Carlo Rizzi e il tandem Leiser-Caurier, Demetrio e Polibio con Paolo Arrivabeni e Davide Livermore; pregnante varietà di stile, genere, notorietà e cronologia, più il pregio internazionale di bacchette e drammaturghi. Indiscrezioni: Salome Jicia come Semiramide, Varduhi Abrahamyan come Arsace, Teresa Iervolino come Ernestina e Jessica Pratt come Lisinga.
RICCIARDO E ZORAIDE
Via il dente, via il dolore. Il ROF 2018 ha scoperto il tallone d’Achille nel nuovo allestimento di Ricciardo e Zoraide: regìa di Marshall Pynkoski, scene di Gerard Gauci, costumi di Michael Gianfrancesco e coreografie di Jeannette Lajeunesse Zingg. Non funziona la lettura teatrale oleografica, povera d’analisi, dispersiva, tanto più essendo applicata a un’opera dalla drammaturgia esile. Non funziona l’apparato scenico basato su fondali prospettici: la premessa per un approccio filologico rimane tentativo poco convinto. Non funziona la galleria di abiti, che rimescola tra loro fogge non coerenti e banalizza la corporeità dei cantanti. Non funziona l’ingombro di movimenti coreografici su una partitura vivace nei ritmi, ma di certo non fatta per essere danzata. Il discorso va poi in discesa a proposito della parte musicale, nonostante la locandina più appariscente del festival – si tratta pur sempre dello spettacolo inaugurale e dell’opera di maggior impegno produttivo – passi agli effetti sperati non senza qualche fatica. Lussuosa è la presenza di Juan Diego Flórez come Ricciardo: la fragranza della linea di canto rimane inconfondibile, e così pure il solido dominio di una tessitura acutissima; ma ormai la carriera è evoluta verso Donizetti, Verdi, Gounod e Massenet, la modulazione si è fatta – se applicata altrove – un po’ tesa e fibrosa, e insomma il debutto nella nuova parte rossiniana risulta oggi un tantino tardivo. Deliziosa è la presenza di Pretty Yende come Zoraide: in lei il personaggio risulta tanto tenero, risoluto e palpitante quanto il versante vocale schiocca agile, luminoso e brillante; ma va anche detto che un soprano leggero, quale ella è, non potrebbe trovarsi a completo agio in una di quelle parti concepite per Isabella Colbran, gravitanti su un registro medio avido di maggior polpa timbrica. Dubbiosa è la presenza di Sergey Romanovsky come Agorante: se l’anno scorso si era messo in tasca pubblico e critica, esordendo al ROF con la commovente, slanciata, temibile parte di Néoclès nel Siège de Corinthe, il passaggio al poderoso canto di sbalzo della nuova parte, in tessitura baritenorile, finisce presto per stancare i suoi bei mezzi in fatto di timbro, colori, smalto e volume. Una strada meno accidentata e un giudizio meno puntiglioso attendono al varco Victoria Yarovaya come sorniona Zomira e Nicola Ulivieri come impetuoso Ircano. Una sorpresa è Xabier Anduaga nella pertichineggiante parte di Ernesto: in scena, nessuno vanta più di lui timbro giovanile e facile risonanza. Avvincente il passo narrativo impresso dal direttore Giacomo Sagripanti: merito anche dell’Orchestra sinfonica nazionale della RAI, cui si affiancava il Coro del Teatro “Ventidio Basso”.
ADINA
La debolezza dello spettacolo di Pynkoski deriva forse anche dal timido camminare sulle uova: la sua esperienza è perlopiù coreografica, non operistica, e finora prestata al Sei-Settecento. Ben altra tempra è quella esibita da Rosetta Cucchi, vecchia volpe del discorso rossiniano, pianista di formazione e regista per passione, chiamata al ROF per mettere in scena Adina. Con lo scenografo Tiziano Santi e la costumista Claudia Pernigotti, trascina quest’operina, che ricadrebbe nel sottogenere della farsa solo per la brevità del respiro e la levità dell’organico, nel più ridanciano àmbito – e per nulla larmoyant – di un Signor Bruschino. Esclude cioè che la tenera vicenda possa essere presa sul serio, la colloca in un cosmo sognante e caricato alla Lewis Carroll, esaspera i caratteri dei personaggi e preclude l’immedesimazione in essi. È un lavoro teatrale smaliziato e degno di sincero interesse, il quale lascia tuttavia un tarlo nella mente dello spettatore. Eccolo spiegato. Nel finale, Adina riprende i sensi; scopre che l’amato Selimo è stato risparmiato dalla condanna a morte, e che il Califo (sic), ostinato nel volerla costringere alle nozze, è il suo stesso padre. In questo luogo teatrale lo spettatore è invitato a stare al gioco e condividere la tenerezza della protagonista; al Teatro Rossini, invece, sull’agnizione è scoppiato puntuale lo sghignazzo del pubblico, a sancire l’avvenuto strattone del testo dal genere semiserio a quello buffonesco. L’abolizione dell’umano vale dunque il guadagno di una risata? Il problema sembra non toccare Diego Matheuz, concertatore di grigiastra correttezza, là dove invece sarebbe suo compito imprimere il colpo d’ala all’Orchestra sinfonica “Gioachino Rossini”, al Coro del Teatro della Fortuna “Mezio Agostini” nonché soprattutto a una partitura negletta e bisognosa di rivalutazione. La consapevolezza del caso si legge invece nelle prove, eccellenti, dei protagonisti vocali. La parte del Califo spetta a un Vito Priante come sempre morbido e sfumato nel canto, sottile e ironico nella recitazione, capace di seguire il dettame registico e insieme di rispettare gli affetti della partitura. La parte del titolo reca invece il debutto pesarese di Lisette Oropesa, soprano la cui organizzazione tecnica è ferrea, e che tuttavia trasmette, con emissione alata, vibrante e sorridente, stupendo trillo granito e qualche tratto di disinibito umorismo, l’idea pura della fragilità adolescenziale: numerose altre parti di primedonne rossiniane attendono di giovarsene. Non pari in rango ma fresco e simpatico il tenore Levy Sekgapane come Selimo, seguìto a un passo, nei meriti, da Matteo Macchioni come Alì e da Davide Giangregorio come Mustafà.
IL BARBIERE DI SIVIGLIA
In oltre sessant’anni da scenografo e in oltre quaranta da regista d’opera, voracemente attivo da un capo all’altro del repertorio, Pier Luigi Pizzi non si era ancora mai occupato del Barbiere di Siviglia. Firmandolo giusto ora per il ROF, da capo a fondo, ha dotato la rassegna di un allestimento incomparabile, che scrosta di ogni orpello posticcio il vivo del teatro, alla maniera del filologo sul testo in carta. Spariscono le macchiette e risorgono i personaggi, divampa la loro relazione attraverso i ceti sociali, ogni battuta di recitativo si ascolta a bocca aperta, i fini giochi teatrali per solutori abili si propagano: ecco l’antologia di incantevoli autocitazioni da precedenti spettacoli, quasi la ricapitolazione di una carriera da arbitro del teatro operistico; ecco Basilio e Bartolo che, mediante i loro interpreti, si scambiano la r parmigiana e l’incespicare nel parlato; ecco l’impianto scenico nel cui asciutto biancore è riassunta la grammatica dell’architettura, del buongusto, dello spazio teatrale. È un capolavoro: i giovani imparino. Quasi per ovvietà, detto capolavoro coinvolge nella vocazione alla forbitezza classicheggiante il direttore Yves Abel: forse non si era mai ascoltato un Barbiere più elegante, equilibrato, disinteressato al rito della tradizione e al contrario tutto fitto nel vero testo, calzante come un guanto al prodromo illuminista di Beaumarchais; forse non si era mai ascoltato un Barbiere più attento ai tempi della parola e indirizzato con più naturalezza al rondò del Conte d’Almaviva; la pagina, guarda un po’, che la tradizione vorrebbe vedere esclusa. A cantarla era qui Maxim Mironov, meraviglia della rigorosa scuola russa e di rosea naturalizzazione italiana, e campione di scherzo, eleganza, vocalizzazione: un modello di misura interpretativa; il Conte necessario ad Abel e Pizzi. Quanto al Figaro di Davide Luciano, si attua in esso un sogno proibito: l’interprete scoppia di salute vocale a ogni nota, e il personaggio esplode di pari vitalità; nondimeno, mai avviene il gigionesco passo di troppo che, accattivando il pubblico, insieme adultererebbe il rapporto con gli altri personaggi e interpreti. Al di sopra di ogni lode sono del resto il Bartolo di Pietro Spagnoli e il Basilio di Michele Pertusi, ineffabili maestri di stile e ben al di là di quanto il mestiere del cantante usualmente comporti. Due anni fa, a Bologna, con altro direttore e altro regista, Aya Wakizono era stata una Rosina delle peggiori; qui si impone come una delle migliori, per fresca e sciolta amabilità di modi, oltre che per la rifinitezza belcantistica. Come Berta, l’irresistibile veterana Elena Zilio; come Fiorello e Ufficiale, l’energico William Corrò. Orchestra della RAI, coro ascolano, spettacolo da vertigine.
TRE RECITAL DI CANTO
Il recital di canto è un genere di spettacolo in via d’estinzione: l’inscalfibile Teatro alla Scala, che ne preserva una stagione specifica, funge ormai da riserva naturale. Si allude al concerto nel quale il cantante dà saggio della propria “macchina”, attraverso musiche che vanno dall’aria antica alla canzone d’autore, subordinando a sé il pianista come mero fornitore dell’accompagnamento. Una seconda riserva naturale era il ROF, che da qualche tempo ha però alzato la mira e favorito dialogo tra voce e strumento. Nel concerto del 19 agosto all’Auditorium Pedrotti, per esempio, il pianoforte di Giulio Zappa ha tenuto uno spazio per sé tra una parte e l’altra dell’esibizione del soprano Yolanda Auyanet: si è trattato di una delicata articolazione di Une caresse à ma femme, dai Péchés de vieillesse (VII, 7), posta a separare i brani cantati di Rodrigo e Granados da quelli di Rossini, Donizetti e Bellini. Nelle musiche spagnole la Auyanet vanta l’immediato possesso della giusta prosodia; nella romanza di Mathilde (Guillaume Tell), nella cavatina di Maria Stuarda e nel rondò di Imogene (Il Pirata) si confessa seguace della Caballé e della Ricciarelli, senza contendere loro i filati eterei e il timbro perlaceo, ma con una spiccata attitudine all’elegia che si riconferma nell’encore verdiano, l’aria di Leonora (Il Trovatore). Benvenuta è la notizia del suo prossimo debutto nell’opera belliana, a Madrid; ma da censurare è la mancata ripetizione della cabaletta in Donizetti: perbacco, siamo al ROF! Intorno al Notturno n. 5 di John Field e a un Allegretto moderato dai Péchés de vieillesse (XII, 5), col sempre sapiente Richard Barker al pianoforte, si innestavano – il 20 agosto – le tre sezioni del concerto di Pertusi: un’aria impropriamente rubata al contralto della Berenice di Handel, pagine da camera di Mozart, Rossini, Bellini, Verdi e Mascagni, i cicli donchisciotteschi di Ravel e Ibert, fino a ricercati bis a base di Apolloni, Thomas e Denza. In tanto eclettismo, a relegare in ultimo piano il cosa si canti – anziché il come – è Pertusi fatto enciclopedia vivente del canto: prodigio risaputo è la sua pastosa omogeneità timbrica, condotta mediante quel che pare il paradigma stesso del legato. Il 21 agosto, infine, ad accompagnare Carlo Lepore era non il pianoforte, ma il Nonetto di fiati del Teatro Comunale di Bologna. Tra un arrangiamento e l’altro di sinfonie d’opera, ecco l’aria di Sarastro a illustrare il superbo registro grave del basso, indi, tra programma e aggiunte, e da Mozart a Rossini e Donizetti, ecco le più note arie di Leporello, Mustafà, Basilio, Don Magnifico, Don Profondo e Don Pasquale, ciascuna snocciolata con brio istrionico, fino alla cavatina di Don Pomponio dalla Gazzetta: a quando quest’ultimo debutto?