di Luca Chierici foto © Brescia&Amisano
Assente dalla programmazione del Teatro alla Scala da ben trentasei anni, uno dei titoli verdiani più amati dal pubblico e capolavoro della prima stagione creativa, Ernani è finalmente ricomparso a Milano attraverso una esecuzione di pregio, con un’ottima compagnia di canto, una valida concertazione e un allestimento che ha avuto per lo più la bontà di riproporre il fascino delle vecchie scene dipinte. Non fosse stato per alcune cadute di gusto del regista Sven-Eric Bechtolf, che si era già segnalato da noi per un grazioso allestimento di Hänsel und Gretel, per una rumorosa contestazione finale diretta a quest’ultimo e soprattutto alla protagonista, avremmo parlato di serata di incontestato successo che ha davvero coinvolto il pubblico presente (si registra un sempre maggior numero di spettatori stranieri, e questo è anche la misura di un processo di internalizzazione molto positivo).
Sbarazziamoci subito degli inciampi, che sono giustificati solamente nel caso delle reazioni nei confronti di una regìa piuttosto debole, che era partita da un’idea apprezzabile ma che è caduta su certi particolari che tendevano a sottolineare l’aspetto caricaturale di una messa in scena operistica, con tanto di ballerine che improvvisavano un can-can o che nell’intervallo tra terza e quarta parte comparivano sul palcoscenico sgusciando dalla buca del suggeritore con cartelloni che invitavano il pubblico a pazientare per la breve interruzione. Trovate che possono andar bene in una teatro di provincia ma che alla Scala non si riescono a tollerare. Più complessa la questione relativa alla giovane e brava Ailyn Pérez, soprano americano di origine messicana già ascoltato alla Scala lo scorso anno in Traviata, che ha affrontato con sicurezza e slancio la non facile parte di Elvira. La Perez ha forse un timbro non particolarmente memorabile, monocromaticamente chiaro e squillante, ma è in possesso di un’ottima tecnica, ha almeno in parte soddisfatto i requisiti di un ruolo che una volta si diceva richiedere qualità proprie di almeno tre tipologie di soprano (drammatico, lirico e leggero) e ha centrato scenicamente il personaggio con notevole disinvoltura. Pretestuose, anche perché a lei rivolte solamente al termine della rappresentazione, sono dunque sembrate le rumorose critiche piovute da una parte del loggione. Del resto ricordiamo molto bene come un altro loggione – nel senso di collocazione temporale – aveva preso posizione contro l’allestimento Muti-Ronconi del 1982, coinvolgendo persino un cast leggendario (Freni, Domingo, Bruson, Ghiaurov!).
Dunque l’idea di Bechtolf e dello scenografo Julian Crouch era quella di ricreare l’ambiente del teatro ottocentesco, con tanto di macchinari azionati a mano e le vecchie, buone scene dipinte: una scelta che aveva un preciso significato, quello di giocare sui piani di finzione e realtà che possono accompagnare la lettura teatrale di questa vicenda (come del resto di tante altre vicende ai limiti della credibilità che sono alla base del teatro d’opera romantico). Idea interessante, che non risolveva però tanti altri aspetti della drammaturgia che sta alla base del libretto di Piave derivato dal lavoro di Victor Hugo.
La direzione di Fischer è apparsa in linea con una tradizione che guarda al Verdi “battagliero” incline ai grandi volumi di suono e ai ritmi implacabili, cosa che può ancora avere un senso a patto che si pongano in evidenza anche le oasi liriche, le mezze tinte. Di mezze tinte (e di mezze voci nel canto) va detto che si è sentito invece ben poco, e un confronto con la precedente lettura mutiana è a questo proposito molto istruttiva. Quanto la compagnia di canto sia stata contagiata da questa impostazione è difficile dirlo, ma non esiteremmo a riconoscere ad Abdrazakov uno spessore interpretativo e di impostazione vocale superiori al resto della compagnia. Non si tratta solamente di esperienza, nel senso di oramai lunga permanenza sui palcoscenici di mezzo mondo, quanto di ricorso a un gusto che sembra purtroppo scomparso. Il suo Silva si è dunque apprezzato in grado massimo anche perché la padronanza vocale del ruolo coincideva con un altrettanto pregevole dominio scenico. Grande successo hanno peraltro riscosso due beniamini del pubblico odierno. Francesco Meli ha portato in scena un Ernani spavaldo, ben sicuro di sé anche dal punto di vista vocale: a lui il pubblico ha riservato applausi a scena aperta sin dalla prima accoppiata di cavatina e cabaletta di ingresso e il consenso ha accompagnato il trentottenne tenore genovese in tutti i numerosi momenti celebri abbinati al suo ruolo. Notevoli consensi ha riscosso anche il Don Carlo di Luca Salsi, baritono di provenienza emiliana d.o.c., classe 1975, che si era conquistato già l’applauso del pubblico scaligero ne I due Foscari e soprattutto come Gérard nello Chenier che ha aperto la appena trascorsa stagione. Il suo è però un Don Carlo più attento alla vocalità in sé che all’approfondimento del difficile carattere del personaggio. Della Pérez si è già detto e si conferma l’apprezzamento generale che ha accompagnato la sua presenza in scena fin dall’inizio, con l’applaudita accoppiata di «Ernani, involami» e »Tutto sprezzo che d’Ernani». Ma tutta la parte prima ha conosciuto un innegabile crescendo di consensi che ha riscaldato la temperatura della sala. Temperatura che per altri motivi si è un poco raffreddata per le trovate registiche nella seconda parte (le già citate ballerine e una schiera di angeli malvestiti), per fortuna messa in salvo dai superbi momenti musicali di maggiore interesse, dal duetto Ernani/Elvira al terzetto con Silva, il “Vieni meco” di Carlo e il drammatico finale d’atto. Il magnifico coro scaligero preparato ad arte da Casoni ha avuto il suo momento d’eccellenza nel “Si ridesti” della terza parte, preludio al celebre quartetto parafrasato anche da Liszt. Altro momento che ha spezzato l’attenzione è stato come già accennato il banale siparietto che ha intrattenuto gli spettatori nel breve intervallo precedente la parte conclusiva dell’opera. Qui era di scena lo sfarzoso ricevimento per i festeggiamenti delle nozze tra Elvira ed Ernani e il costumista inglese Kevin Pollard ha peccato di un certo cattivo gusto in qualche dettaglio (la ruota di pavone sul capo di Elvira!) facendo scadere di tono anche la buona scelta scenografica di ambientare il tutto in un palazzo palladiano. Il fatale scioglimento del dramma è coinciso anche con la scomparsa delle scene dipinte e del fondale, riportando alla vista i macchinari che si erano notati all’inizio.