di Alberto Bosco foto © Javier del Real
Mancano ancora un Trovatore e una Giovanna d’Arco, ma a conti fatti, questa di Capriccio potrebbe essere la migliore produzione che si è vista quest’anno al Teatro Real di Madrid, fiore all’occhiello di una stagione ricca di nuovi allestimenti. Regìa, direzione, cantanti e orchestra si sono trovati tutti sulla stessa lunghezza d’onda e hanno dato vita a uno spettacolo perfettamente messo a fuoco, centrando in pieno il carattere dell’ultimo lavoro teatrale di Strauss. Lavoro, di suo però, tutt’altro che perfetto: a parte il sorprendente inizio, l’opera prende a ingranare solo da metà in poi, dalla mirabile scena IX, dove grazie allo sfondo di forme musicali parodiate (un passepied, una giga, una gavotta, una fuga, un duetto d’opera italiana, due strepitosi concertati a otto voci alla maniera folle di Rossini) il discorso drammaturgico è preso in mano dalla musica e quindi il virtuosismo deformante di Strauss ha modo di sfogarsi senza remore. Non si può fare a meno di notare che questo musicista, il quale per tutta la vita ha vissuto sulla scia della musica di Wagner adottandone le pose esteriori, ma senza i contenuti, abbia qui fatto lo stesso anche con i suoi scritti di poetica, di cui questa scena sembra una caricatura. Come non è difficile vedere nella lunga tirata di La Roche, l’ultimo messaggio dell’autore.
Capriccio, quindi, pur contendendo, parecchia musica bellissima e uno dei finali più suggestivi e poetici del repertorio è appesantita da troppe lunghezze, in particolare nella prima parte, e da un libretto che ha troppe divagazioni dall’assunto centrale, già in partenza esile (ad esempio, che bisogno c’è del Conte e di Clairon?), che abusa dell’allegoria e fa sfoggio di ridondanti allusioni culturalistiche. Tolta l’ultima scena, non è poi tanto giusto parlare propriamente nel suo caso di opera, né giudicarla l’ultimo anello di una lunga catena. Ancor più del Rake’s Progress di Stravinskij, in cui pur nell’estetica del pastiche, l’azione drammatica ambisce tra mille cautele e virgolette a farsi musica, questo lavoro è talmente auto-referenziale e condotto come una riflessione al quadrato su una tradizione ormai perenta e passata, da collocarsi al di fuori del genere. Infatti, a parte l’aria finale, il canto non è mai intonato in prima persona, ma è sempre filtrato, da citazioni, da giochi specchianti, da forme e inflessioni che sono invece proprie del parlato, da ambiguità del sostegno armonico che ne riducono il tasso di comunicatività spontanea, fino a ridursi alla recitazione parlata. Più che come un’opera, quindi la si ascolta come una meditazione sull’opera, cosa che per gran parte è.
Poteva pertanto sembrare azzardata l’idea del regista Christof Loy di aggiungere un ulteriore livello di lettura alla già tanto stratificata trama di questo libretto, in cui i personaggi sono sempre simboli di qualcos’altro (la musica, la poesia, il teatro, la frivolezza, il senso pratico, il belcanto, e così via) e in cui la storia si specchia su se stessa raccontandosi. Loy, infatti, sdoppia già in partenza la situazione, che nell’originale dovrebbe essere ambientata a fine Settecento, mettendo in scena gli attori in costumi novecenteschi e poi facendoli travestire come nell’ancien régime. In più, il personaggio principale della contessa è scisso in tre, con due figuranti, una giovane ballerina e un’anziana ed elegante signora, che insieme alla Madeleine vera e propria, rappresentano le tre età della vita che si compenetrano, in modo da dare un po’ più di sostanza al ridicolo dilemma di questa donna incapace di scegliere tra l’amore del poeta Olivier e quello del compositore Flamand. Infatti, così facendo, il regista, ha reso palpabile l’incertezza esistenziale di questa donna e ne ha smascherato l’incapacità di decidere trasferendola su un piano più generale, in una dimensione in cui il tempo non scorre più, perché la paura di decidere è paura di morire, e così la vita è condannata a non scorrere, ma a ripetersi circolarmente. Questo impianto, in apparenza così cervellotico, ha funzionato a meraviglia, riflettendo in scena la circolarità della vicenda e dando un senso più sfumato alle allegorie un po’ vacue e facilone di cui si compiace il libretto, per gran parte opera dell’autore stesso. Ma soprattutto ha colto la particolare poesia di quest’opera alla cui radice è il desiderio di distillare una bellezza che si collochi al di sopra della storia quale antidoto al suo divenire, aspirando a un stato di sospensione dalle brutture del mondo reale.
In questo senso, sarà difficile dimenticare la magia della scena finale, dove la musica decolla una buona volta (dando così tra l’altro un’eloquente e inappellabile risposta alla domanda se nell’opera vengano prima le parole o la musica) e la protagonista si trasfigura, lasciandosi alle spalle le tante discussioni precedenti, che ora sembrano essere servite solo da pretesto a Strauss per regalarci l’ultima sua grande aria per soprano. Preparata dalla regia e condotta con magistrale calibratura di effetti da Asher Fisch sul podio, quest’ultima scena ha dato l’impressione di un crepuscolo infinito, tanta è l’estenuante caparbietà con cui l’autore si aggrappa alle ultime note di quello che sentiva essere il suo addio al teatro. Buona parte di questa riuscita si deve anche alla splendida protagonista Malin Byström che, pur avendo iniziato con una voce stranamente un po’ intubata e con mosse più da attrice di commedia all’americana che da contessa, si è trasformata in un’apparizione dall’eleganza di Grace Kelly e ha cantato con il giusto abbandono la magnifica aria. Anche il resto del cast, con qualche piccola riserva sui due cantanti italiani, è stato strepitoso nel coniugare canto e recitazione; più di tutti ha convinto Christof Fischesser, sensazionale nei panni di La Roche. Infine, il pubblico: pur costretto a non staccare gli occhi dai sopratitoli per non naufragare nei fitti dialoghi tedeschi, alla fine delle due ore e venti ininterrotte di spettacolo ha decretato uno spontaneo, caloroso – e meritatissimo – successo.