di Luca Chierici foto © Clarissa Lapolla
Nel suo lavoro di ricerca sul teatro italiano tra ’700 e ’800, una delle tante direttrici scelte nel corso di quarant’anni di attività, il Festival della valle d’Itria presenta quest’anno un titolo che era già stato recuperato a Savona nel 1990 dopo quasi due secoli di oblio e che a quei tempi aveva riscosso un certo successo grazie anche alla presenza di un soprano come la Antonacci nel ruolo di Polissena. Il nome di Nicola Antonio Manfroce (1791 – 1813) aveva suscitato in tempi non sospetti la curiosità dei più per ovvi motivi anagrafici: nato a Palmi, in Calabria, talento precocissimo, il giovane compositore aveva frequentato il Conservatorio della Pietà dei Turchini, studiando con Tritto, per poi perfezionarsi a Roma con Zingarelli, e aveva scritto Ecuba sulla base di una febbrile ispirazione in un breve lasso di tempo, compromettendo a quanto pare uno stato di salute già poco felice. La morte lo colse a Napoli a soli ventidue anni, pochi mesi dopo la prima esecuzione dell’opera al San Carlo. Ci sono quindi tutti gli ingredienti – compresa una presunta liaison con una nobile assatanata che avrebbe risucchiato le ultime energie del giovane – per creare i presupposti di un “caso” che però, dopo un notevle successo iniziale, non ebbe seguito alcuno. L’opera rimase negli archivi delle biblioteche (disponibile on line è la copia manoscritta relativa alla rappresentazione napoletana) e solamente la nuova produzione del 1990 era destinata a risollevare le sorti di un lavoro senza dubbio interessante, anche se non così interessante da meritare un recupero stabile. Diciamo, in altre parole, che questa Ecuba rappresenta più una curiosità musicologica che stimola alcune riflessioni sullo stato dell’opera seria italiana e sulle contaminazioni recepite attraverso la tragédie lyrique francese che un capolavoro tale da meritare il suo reinserimento stabile in repertorio. Né il lavoro compiuto per l’edizione a stampa approntata di recente ci sembra possa essere a pieno titolo gratificato dall’appellativo di “edizione critica”, anche a causa della difficile reperibilità di tutte le copie manoscritte esistenti. Del resto per la rappresentazione martinese si sono operati diversi tagli che toglievano all’operazione di quest’anno il carisma del recupero integrale.
Vien da pensare, attorno alla figura di Manfroce, a un aneddoto piuttosto singolare, riportato nella autobiografia di Ludwig Spohr, che ha come protagonista il maestro di Manfroce, Zingarelli. Nel 1817 – quattro anni dunque dopo la morte dell’allievo promettente – il celebre operista aveva ricevuto la visita di Spohr. Interrogato da questi sullo stato generale della musica e sui differenti ruoli rivestiti dalla aurea tradizione vocale italiana e da quella strumentale tedesca, Zingarelli se ne uscì con un grande apprezzamento nei confronti di Haydn (scomparso nel 1809) senza nemmeno nominare il nome di Mozart, morto nel ’91. Allo stupore di Spohr, Zingarelli rispose che Mozart «… aveva avuto certamente un grande talento ma era vissuto troppo brevemente per coltivarlo in maniera appropriata; se solamente avesse avuto l’opportunità di studiare almeno un’altra decina d’anni sarebbe stato capace di scrivere qualcosa di buono». L’aneddoto rivela ovviamente, più che la cecità inspiegabile di Zingarelli, lo stato assai misero di conoscenza in Italia dell’opera del grande salisburghese. Ma allo stesso tempo si potrebbe trasferire questo assurdo giudizio di Zingarelli sul nome di Manfroce, in quel caso veramente scomparso troppo presto per poterne apprezzare tutte le possibili potenzialità. Sulle ventilate analogie tra Manfroce e Mozart e sulle presunte affinità tra le arie di Ecuba e le arie da concerto di Mozart, da taluni suggerite, preferiamo astenerci da qualsiasi commento.
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Ma anche solamente per valutare nel dettaglio le caratteristiche di questa Ecuba e il suo ruolo nella storia dell’opera italiana di quel periodo occorrerebbe una conoscenza e uno studio approfondito che prendesse le mosse da tutta la produzione collocabile nel contesto dell’opera seria a cavallo tra ’700 e ’800, dal Cherubini di Lodoiska (1794) e Medea (1797), allo Spontini de La Vestale (1807) e del Fernando Cortez (1809) e in minor grado dal Cimarosa de Gli Orazi (1796) e l’ultimo Paisiello di Elfrida e Elvira, fino ad arrivare al primo Rossini serio del Ciro in Babilonia (1812) e del Tancredi (1813). Un simile lavoro di ricerca era stato in parte effettuato da chi all’epoca aveva curato la ripresa del lavoro di Manfroce (sopra tutti Giovanni Carli-Ballola), ma neanche in quel caso si poteva giungere alle ragioni di una completa rivalutazione del titolo e al suo inserimento nel rango dei veri e propri capolavori . Ancor meno interessante è l’esplorazione delle fonti del libretto di Jean-Baptiste-Gabriel-Marie de Milcent tradotto in italiano da Giovanni Schmidt, un testo che riduce un contesto originale euripideo colmo di spunti tragici a una ben più mite corrispondenza di amorosi sensi tra un Achille improbabile nella sua tenerezza e Polissena, figlia di Priamo ed Ecuba e sorella di Ettore. Secondo una certa tradizione, Priamo avrebbe infatti acconsentito alle nozze tra la figlia Polissena e Achille, eroe che è sì innamorato di Polissena ma che allo stesso tempo ha ucciso Ettore. La morte di Achille, fatto assassinare da Ecuba, e quella di Priamo e Polissena all’arrivo dei Greci invasori determina la tragica solitudine finale di Ecuba, mentre Troia si consuma tra le fiamme. Solamente nel terzo e ultimo atto dell’opera la figura di Ecuba acquista un ruolo centrale, e con essa la valenza drammatica del soggetto riacquista tutta la sua importanza. Ma sembra che Manfroce concentri tutta la propria vena creativa soprattutto nei primi due atti, e che la conclusione dell’opera risulti quasi affrettata, con un episodio orchestrale di una quarantina di battute che conclude il dramma in maniera inaspettata. Una tipologia importante di Finale, che verrà ripresa da Rossini, ma che si ammira più per le “intenzioni sinfoniche” che per un vera e propria genialità di scrittura.
Vi sono certamente in questa Ecuba alcuni motivi di interesse, anche quelli che potrebbero essere visti in chiave negativa, come l’asimmetria esistente tra la scarsa veemenza dei caratteri maschili e la molto più vivace tinta di quelli femminili. E vi sono momenti di grande musica come nel caso dell’aria di Ecuba con coro nella scena seconda del primo atto, mescolati a virtuosismi di scuola (l’intervento di Achille nella scena terza) o a duetti che sembrano anticipare certo Rossini (il duetto Polissena-Achille all’inizio dell’atto secondo, di impostazione classica ma già espressivamente romantico). Notevole, anche se anticipata da un recitativo piuttosto formale, è l’aria di Ecuba che prevede una bella introduzione dell’arpa solista e che si svolge poi secondo un Allegro virtuosistico, sempre con arpa obbligata. E anticipatori ancora di certo Rossini sono i due Quartetti nel Finale secondo, l’ultimo dei quali inizia “a cappella” ed è seguito da un Concertato e coro finale molto brillanti.
Si diceva che nel 1990 la voce della Antonacci dava vita al personaggio di Ecuba, ma non è questo il punto che genera un confronto negativo con la produzione odierna curata dal Festival della valle d’Itria. Semmai alcuni problemi non secondari sono scaturiti dal fatto che il titolo avrebbe dovuto essere preparato da Fabio Luisi, direttore di casa a Martina ed esperto di riletture di testi poco frequentati. Lo stato perdurante di malattia di Luisi – e le recenti “grane” fiorentine – hanno fatto sì che si dovesse ripiegare sul pur bravo Sesto Quatrini, che al festival aveva già diretto con successo Gulietta e Romeo di Vaccaj lo scorso anno e il verdiano Un giorno di regno nel 2017. La compagnia di canto, il coro e l’orchestra del Petruzzelli hanno retto bene il passaggio ma si sono sperimentate alcune incertezze nell’assieme, pur giustificabili dato il contesto di repentina sostituzione, che non hanno certo giovato alla presentazione di un lavoro già non facile per le peculiarità dell’impianto musicale.
Né il veterano Pierluigi Pizzi, incaricato in un primo momento del solo allestimento del Matrimonio segreto di Cimarosa (di cui parleremo prossimamente) è riuscito ad andare al di là di una misurata regìa e di una scenografia “razionalista” imbastita sullo stesso impianto architetturale dell’opera di Cimarosa, una struttura tripartita che poteva vagamente richiamare le simmetrie della sezione aurea. I costumi pesanti e poco scaramanticamente votati al viola e al nero non aiutavano di certo la ricezione di uno spettacolo piuttosto pesante. La vicenda già piuttosto statica di Ecuba è stata risolta con grandi presenze di cori immobili, con la quasi ininterrotta esibizione del cadavere di Ettore al centro della scena (bravissimo il mimo che si è sobbarcato il gravoso impegno), con la presenza ieratica della protagonista che sfruttava anche le caratteristiche fisiche del soprano, alta, magrissima, ideale in un certo senso per rappresentare la figura tragica della madre di Ettore. Si trattava della giovane Lidia Fridman, che sostituiva all’ultimo momento Carmela Remigio, a quanto pare indisposta. La Fridman, che avevamo ascoltato qualche giorno prima nel corso di uno dei “Concerti del sorbetto”, simpatica manifestazione pomeridiana che da qualche anno allieta il ricco programma martinese, ha retto il ruolo con professionalità e si è meritata gli applausi finali del pubblico, ma è ancora troppo presto individuare per lei precisi sviluppi di carriera. Al suo fianco si è ammirata Roberta Mantegna, tecnicamente ineccepibile anche se di timbro non particolarmente affascinante (la sua aria di entrata non riceve applauso alcuno) mentre il cast maschile poteva contare sull’impetuoso Mert Süngü, Priamo che spesso si inerpica su tessiture vocali impervie e sul secondo tenore Norman Reinhardt, valido Achille ma all’inizio poco calcolato da un pubblico che sembra non recepire i virtuosismi della entrata a lui dedicata nell’atto primo.
I tre atti dell’opera sono stati eseguiti senza soluzione di continuità e al termine si sono registrati applausi per tutto il cast, mentre alcuni rumorosi dissensi sono stati rivolti a Pizzi al momento della sua comparsa in scena.