di Attilio Piovano foto © Gianluca Platania
Dopo la recensione della serata inaugurale, il Festival MiTo 2020, svoltosi con un buon seguito di pubblico sia a Torino sia a Milano – nonostante le imitazioni di accesso dovute all’attuale emergenza sanitaria – e conclusosi di recente, merita senz’altro alcune sia pur brevi spigolature. E allora – come sempre – attingiamo dagli appunti del nostro diario di bordo torinese. Tra i recital pianistici un cenno merita senza dubbio quello del raffinato ed elegante Filippo Gamba che a Torino il pomeriggio del 7 settembre ha spaziato dal Beethoven ‘ultimo’ delle Sonate op. 110 e op. 111 al Ravel ‘minore’, ma ugualmente pregnante del garbatissimo Menuet sur le nom de Haydn, nonché al George Benjamin della Meditation on Haydn’s name, quasi una sorta di par condicio. Così pure, fa piacere registrare la presenza di Benedetto Lupo, intelligente e colto artista, avvezzo a confezionare programmi mai banali e prevedibili, impegnato la sera dell’8 settembre, ancora in Conservatorio, sul versante di Janáček (Sul sentiero di rovi e la Sonata del 1905) in abbinamento allo Skrjabin dei Ventiquattro Preludi op. 11.
Di spicco, la sera di giovedì 10 settembre, l’interpretazione della versione lisztiana a due pianoforti nientemeno che della Nona Sinfonia di Beethoven (nell’anno del 250°). Trascrizione impervia, a suo modo efficace (e pur singolarissima), invero di rara presenza nelle sale da concerto (il che accresceva l’appeal dell’evento) affidata alle mani del navigatissimo duo Canino-Ballista: due artisti di enorme esperienza e dall’affiatamento pressoché unico; dopo ben sessant’anni anni di musica insieme, i due gran ‘vegliardi’ hanno affrontato la partitura da par loro, replicandola nella medesima serata, alle 20 e poi ancora alle 22,30, date le norme di limitazioni dei posti (comportando uno sforzo anche fisico e di concentrazione da far tremare due ventenni). La Nona ci è trascorsa davanti agli occhi con emozione e alle orecchie è risultata come profondamente rigenerata: dal mistero dell’esordio che nella versione a due pianoforti, dovendosi rinunciare ai colori orchestrali, pare ancora più arcano e lunare, allo Scherzo, affrontato con tempi prudenzialmente allentati sì da porne in evidenza tutta la bellezza ‘strutturale’ (ed anche alcuni dettagli, come il singolare emergere del timpano che, mimato da uno dei due pianoforti, appare ancora più lancinante ed innovativo), e poi gran finezza di colori nel sublime (e protratto) movimento lento, appena qualche calo di tensione qua e là, giù giù sino al finale. Dove la mancanza delle voci certo si fa sentire, nella versione lisztiana, ma alla quale i due interpreti hanno supplito egregiamente. E chiudendo gli occhi, nei cantabili resi al meglio dalle dita esperte dei due e dalla loro grande sensibilità, pareva davvero di sentire echeggiare l’afflato dell’Inno sublime musicato sui versi di Schiller.
Molta attesa per la serata del 12 settembre diretta dal poliedrico Federico Maria Sardelli alla guida di Modo Antiquo: una serata tutta barocca, quasi una monografia sul genere del concerto grosso, con pagine di Corelli, Geminiani, Haendel (op. 3 ed op. 6) quindi del sommo Vivaldi il celeberrimo Concerto n. 11 dall’op. 3 (L’estro Armonico) al cui interno compare il sublime e notissimo Largo malinconico, lagunare e bellissimo, Concerto trascritto anche da Bach. Il clou della serata era il nuovo lavoro, ancora fresco di stampa, dello stesso Sardelli, un Concerto grosso nello spirito di Corelli davvero singolare e amabile: per sua stessa ammissione, non già un pastiche, ironico e con quello spirito corrosivo che vi immettevano gli autori neoclassici di primo ’900 – per dire, uno Stravinskij con Pulcinella e poi via con Scarlattiane, Cimarosiane, Paganiniane, Rossiniane, Tartiniane dei vari Casella, Respighi, Malipiero, Dallapiccola – bensì un vero e proprio esercizio di stile: segno di una profonda conoscenza delle maniere di Corelli (e invero anche di quelle di Vivaldi), sul piano armonico linguistico, formale e stilistico. Non a caso la pagina ha riscosso vivo successo, e dunque Sardelli, ammirato oltre che come direttore e concertatore accurato (potendosi avvalere di un ensemble dalla buona coesione, dal bel suono e dagli assunti interpretativi allineati secondo i più aggiornati standard della filologia), anche in veste di fantasioso e colto compositore.
Ancora un cenno in merito al concerto pomeridiano di venerdì 18, a cura dell’Orchestra dell’Accademia del Santo Spirito diretta dal super esperto di barocco Ottavio Dantone: in programma di Bach, in apertura, il Concerto in fa minore BWV 1056 dagli sciolti tempi estremi e dal superbo, toccante Largo centrale debitore alle maniere italiane (Dantone lo ha disimpegnato con virtuosismo ed anche con grande gusto nel variare gli abbellimenti e le fraseologie). E proprio alle maniere italiane Bach guarda sommamente parodiando il pergolesiano Stabat Mater nel mottetto Tilge, Höchster, meine Sünden. Soliste di lusso il soprano Marina Bartoli Compostella ed il contralto Lucia Napoli, ben affiatate nei vari duetti (fra tutti, grande stupore ha destato Lass dei Zion vero e proprio calco di certi passaggi della Serva padrona, dopo il pathos di Denn du willst) e meritatamente applaudite, sicché hanno bissato il conclusivo Amen, tutto serrate imitazioni, una vera gioia per la mente e le orecchie.
Serata conclusiva al Regio, il 18 sera con un concerto per intero dedicato alle intersezioni tra cinema e musica. E allora ecco l’Orchestra del Regio (i soli archi, ma con un organico numericamente significativo) ottimamente diretta da Sesto Quatrini che ne ha saputo trarre bei colori e notevoli gradazioni dinamiche. E dunque in apertura il Brahms della Danza ungherese n. 5 che Charlie Chaplin inserì in una scena madre del Grande Dittatore, affrontata con virile compostezza ed efficacia, senza inutili gigionismi, poi il toccante e superbo Notturno dal Secondo Quartetto di Borodin, tutto echi dal Principe Igor (impiegato in Zona pericolo di John Glen) e da ultimo la versione orchestrale del Souvenir de Florence op. 70 di Čajkovskij (adottato in 40.000 dollari per non morire di Karel Reisz): pagina, come si sa, nata quale sestetto e che invero nella versione orchestrale risulta, a nostro avviso, eccessivamente dilatata e un poco dispersiva. Ma i bravi professori d’orchestra del Regio hanno fatto del loro meglio per renderla ugualmente efficace. Piatto forte della serata il Concerto per pianoforte op. 35 con accompagnamento di orchestra d’archi e tromba di Šostakovič dalle atmosfere agrodolci, grottesche, irrorate di magica ironia. Solista l’ottimo Giuseppe Albanese, dal gesto incisivo e dalla tecnica solidissima, istrionico e circense negli atteggiamenti, come del resto è giusto dati gli assunti di questa pagina singolare e fascinosa, alla quale la tromba di Sandro Angotti, dalla perfetta intonazione e dai bei fraseggi, ha aggiunto un quid impreziosendola alquanto.