di Francesco Lora
Un ballo in maschera di Giuseppe Verdi, si sa, doveva avere ambientazione svedese e protagonista il re Gustavo III di Holstein-Gottorp, sovrano assoluto, illuminato e davvero assassinato, nel 1792, durante una festa nel palazzo reale.
Ma un regicidio in scena, per giunta recente e trattato senza inibizioni nel libretto di Antonio Somma, non era tollerabile: lungo traversie di censura prima napoletano-borbonica e poi romano-pontificia, l’originale Gustavo III fu minacciato di ribaltamenti all’ambientazione, alla drammaturgia e alla logica stessa; passando per i titoli di Una vendetta in domino e Adelia degli Adimari divenne infine, con buona pace del compositore e con aperto sdegno del librettista, quel Ballo in maschera poi consegnato alle scene e stabilizzato nel repertorio, con ambientazione bostoniano-coloniale e il re di Svezia mutato in governatore britannico.
Più deprecabilmente usando la fantasia che effettivamente studiando le fonti, in parecchie messinscene dell’opera, perlopiù recenti, si è azzardato un ripristino dell’ambientazione svedese. Il Festival Verdi del Teatro Regio di Parma ha se non altro tentato di mettere un po’ d’ordine, lanciandosi tuttavia in un’operazione discutibilmente scientifica e a rischio pseudofilologico: nelle quattro recite dal 24 settembre al 15 ottobre, a sperimentale cura dell’editrice critica Ilaria Narici, è stata eseguita la partitura ordinaria, ripristinando però tutte le lezioni autentiche del libretto non censurato. Da una parte ci si guadagna: le parole originali sono più efficaci, ardite, coerenti. Da un’altra parte ci si perde: Verdi licenziò la partitura basandosi sulla versione censurata, sicché oggi, in diversi passi, la musica subisce, a ritroso, adattamenti ritmici non d’autore, e la linea melodica stessa mostra un andamento innaturale, sospetto, inefficace.
Nel nuovo allestimento scenico parmigiano si ha almeno il buon senso – e non è scontato – di assecondare il contesto svedese, cortigiano, smaliziatamente illuminista. La regìa doveva essere firmata da Graham Vick, compianto in questo progetto che il collaboratore Jacopo Spirei ha ereditato e attuato nella misura possibile: con le scene e i costumi di Richard Hudson, le luci di Giuseppe Di Iorio e le coreografie di Virginia Spallarossa, l’esito finale mostra idee e immagini dove i brillanti ammicchi – Oscar spigliato crossdresser, cortigiane barbute come le streghe di Macbeth, Ulrica inedita seduttrice – sarebbero di certo stati, con Vick, graffianti lezioni di vita. Tutti gli attori, però, sanno cosa fare. Lo sa in particolare l’encomiabile Piero Pretti, che come Gustavo III (scilicet Riccardo) sfuma a oltranza e illustra una sottigliezza di fraseggio bergonziana, contraria allo stereotipo di psicologia tenorile. Lo sa in particolare la sbalorditiva Anna Maria Chiuri, che come Ulrica paganeggiante, non esoticamente nera, si impone col suo vocione inconfondibile e lavora sulla parola con l’acume di nessun’altra. Lo sa in particolare Giuliana Gianfaldoni, che come Oscar passa miracolosamente immune da affettazioni, manierismi e petulanze, fa odorare l’ambiguo rapporto col padrone e svetta sicura al Do sopracuto. Sbiadita nel gesto, nell’espressione e nel canto è invece l’Amelia di Maria Teresa Leva, troppo timida in una parte che esige invece abbondanza di passione e coraggio. Amartuvshin Enkhbat, dal canto suo, come Conte Gian Giacomo Anckastrom (scilicet Renato) ostenta il consueto, favoloso fiume di suono omogeneo, copioso e facile, ma fa tuttora sospirare il momento nel quale un simile prodigio della natura saprà anche stupire per nerbo di accento drammatico.
Non ha senso che un festival, luogo aperto per missione, si doti di un direttore musicale; è però provvidenziale che il Festival Verdi lo abbia e che questi sia Roberto Abbado. La sua concertazione è un’equilibrata sintesi di studio capillare, misura espositiva e discorso vivido, di assimilazione stilistica sul fronte della buona tradizione e di riscatto là ove l’erudizione della partitura è spesso tirata via. Piace allora dire anche dell’altro suo contributo al cartellone, ossia il rifinito concerto sinfonico-corale dedicato a rarità verdiane. Il 26 settembre, nel Teatro Regio, il programma verteva sulle prime cinque opere di Verdi per la Scala di Milano. V’erano le sinfonie di Oberto, conte di San Bonifacio, Un giorno di regno e Giovanna d’Arco, i piccoli cori dei primi due titoli, invero non degni dell’antologia, contro l’eloquenza di «O Signore, dal tetto natio» dai Lombardi alla prima crociata, preceduto dal preludio nell’atto III col suo violino concertante. V’era soprattutto il divertissement (balletto) composto nel 1848 per Nabucco, anzi Nabuchodonosor, dato in francese alla Monnaie di Bruxelles: nessuno l’aveva più ascoltato dopo che l’autore l’aveva tolto dalla circolazione e chiuso nel famigerato baule di Sant’Agata. Va però conosciuto, meglio in concerto che dentro l’opera: non tanto poiché fermerebbe l’azione, ma poiché il linguaggio verdiano, nel giro di sei anni, aveva già preso vie differenti. Fa figura ottimale così, eseguito tra «È l’Assiria una regina» e «Va’, pensiero, sull’ali dorate» infranciosati in «Comme le Dieu Bel, notre grande reine» e «Molles brises dans l’aur bercées». Fragrante e idiomatico il Coro del Regio, qui come in Un ballo in maschera; poca grinta, invece, nell’Orchestra del Comunale di Bologna, cui la Filarmonica Arturo Toscanini, impegnata nell’opera, bagna stavolta il naso.