di Attilio Piovano
Buon successo al Teatro Regio di Torino (anche se, occorre ammetterlo, di fronte ad una platea colpevolmente piuttosto rarefatta), la sera di martedì 17 maggio 2022, per La scuola de’ gelosi di Antonio Salieri (cinque le recite complessive): titolo, di fatto oggi poco noto al grande pubblico, ancorché si tratti – storicamente – di una delle opere più fortunate del musicista etichettato, con semplicistica e sommaria leggerezza, quale ‘rivale di Mozart’ per antonomasia. E allora un po’ di storia, doverosamente.
Salieri aveva inaugurato alla Scala, il 3 agosto 1778, con Europa riconosciuta: il musicista, avendo lasciato Vienna a seguito dello scioglimento della compagnia d’opera italiana da parte di Giuseppe II, intenzionato a ‘sponsorizzare’ maggiormente il nazionalismo del Singspiel, si trovava in Italia, dove rimase circa tre anni. Sicché accettò di buon grado commissioni sulle varie ‘piazze’; ecco spiegata la genesi della Scuola de’ gelosi, dramma giocoso in due atti su libretto di Caterino Mazzolà (futuro librettista della mozartiana Clemenza di Tito), che andò in scena al veneziano San Moisé nel dicembre del 1778. Ed ebbe un successo a dir poco strepitoso, in assoluto fu anzi uno dei maggiori esiti dell’intera carriera di Salieri, tant’è che si registrano svariate produzioni in tutta Europa sino ai primi anni dell’800; un risultato davvero ragguardevole. Ci furono innanzitutto rappresentazioni in poco meno di una trentina di città italiane, tra il 1778 ed il ‘98, ma non solo; l’opera circuitò (pare) in settanta diversi allestimenti, in Austria, Germania, Polonia, Lettonia, Ungheria, Inghilterra, Russia, Spagna, Portogallo, Francia; ebbe traduzioni in tedesco, polacco, russo, spagnolo, francese e portoghese e fu una delle opere predilette presso gli Esterházy dove venne rappresentata una ventina di volte. Non male. Alla Scala giunse solamente nel 1798 mentre a Torino era approdata al Carignano già nel settembre del 1780.
Soprattutto, merita rimarcarlo, l’opera venne ripresa a Vienna il 22 aprile 1783, per la riapertura della compagnia di canto per l’opera italiana, e fu in tale circostanza che Lorenzo Da Ponte, futuro autore della trilogia per Mozart, pose mano al libretto di Mazzolà, scrivendo i testi sostitutivi di alcune arie: lo stesso Salieri a sua volta riscrisse pertanto alcune parti, rivedendo la partitura. Ed è questa edizione che è stata opportunamente proposta a Torino.
Il libretto, arguto e gradevole, conserva tuttora una passabile credibilità «senza cadere nel grottesco» rifacendosi peraltro a topoi già ben presenti nel teatro veneziano di fine ‘600 inizio ‘700 ed a moduli peculiari della librettistica goldoniana rivissuti in maniera originale, soprattutto preconizzando di fatto il tema portante di Così fan tutte.
E allora ecco la gelosia per così dire ‘incrociata’ di due coppie in difficoltà. Il mercante Blasio è infatti ‘marito geloso’ della ‘annoiata’ consorte Ernestina tanto da tenerla segregata per timore di tradimenti. Al contrario, il Conte di Bandiera, ‘marito moderno’ concede la massima libertà alla moglie, pur di poter corteggiare egli stesso Ernestina, sicché la Contessa è a sua volta gelosa. La sofferenza delle due donne è al centro di gags e più o meno prevedibili colpi di scena; Blasio non sa come difendersi dal Conte senza danneggiare i propri affari, ma ecco che l’intervento di un cugino di Blasio e amico del Conte, un Tenente ‘uomo di spirito’, fa esplodere il contrasto. Il mercante riconquista la moglie facendole credere di tradirla e la Contessa, a sua volta, agisce in maniera analoga col Conte, mettendolo a conoscenza di un presunto appuntamento. Svelati gli inganni i due uomini si rammaricano dell’assurdità del loro comportamento. Non basta, vi sono anche la cameriera Carlotta, dapprima al servizio di Ernestina, poi della Contessa, e il suo amante Lumaca, servitore di Blasio. Sotteso al tutto un certo lucido disincanto che – ça va sans dire – troverà ben altri accenti in Mozart.
Non è chi non veda vistose anticipazioni delle mozartiane Nozze con la doppia coppia dei nobili e dei servi e la faccenda del biglietto, come pure di situazioni poi presenti dapprima nel Don Giovanni di Bertati-Gazzaniga, poi in quello di Mozart-Da Ponte, nelle già citate Nozze, giù giù sino al rossiniano Barbiere. Molti i dettagli inventariabili, ma non è certo possibile enuclearli tutti nello spazio di una recensione.
E dunque lo spettacolo allestito a Torino: produzione originale del viennese Theater an der Wien in der Kammeroper. La musica di Salieri è piacevolmente amabile, conosceva il mestiere e scriveva bene (che belli certi interventi dei fiati) senza essere un genio: obiettivamente vi sono alcune arie più riuscite ed altre alquanto più statiche, un po’ moraleggianti, che convincono meno; l’ouverture iniziale (poi rimaneggiata come Sinfonia ‘veneziana’) è gradevole e conquista, senza però entusiasmare. Pregevoli i finali d’atto, il primo e soprattutto il secondo, come pure terzetti e duetti. Alcuni interventi cembalistici in ‘stile galante’ sono troppo protratti e si ‘perdono’ un poco nella vastità del Regio (analogo discorso per la simpatica scena, ma che denuncia una provenienza da un teatro di ben più ridotte dimensioni e l’adattamento al vasto palco suona un po’ una diminutio); mediamente la percezione complessiva è di una certa ripetitività, pur con momenti di sincero godimento e notevole esito. Certo, duole doverlo ammettere al cospetto – idealmente – del buon Salieri, il confronto con Mozart è schiacciante.
Detto ciò si è potuta apprezzare la performance del valido cast. E allora bene Askàr Lashkin (baritono) nei panni di Blasio, vocalmente e scenicamente a posto (come del resto l’intera compagnia di canto); apprezzato anche il Conte di Omar Mancini; discretamente convincente il Tenente sbozzato dal tenore Joan Folqué,. Soprattutto giganteggiava, vocalmente e non solo, il baritono Adolfo Corrado nel ruolo di Lumaca,:a lui un plauso davvero speciale. Sul versante femminile valida la Contessa restituita dal soprano Elisa Verzier, così la Ernestina di Carolina Lippo: entrambe hanno avuto momenti di felice riuscita, muovendosi in scena con scioltezza, dinamismo e souplesse. Bene poi, soprattutto il mezzosoprano Anna Marshania nei panni della cameriera Carlotta che è un po’ ‘serva padrona’ e un po’ un anticipo dell’assai più pepata Despina.
Dal podio Nikolas Nägele ha ben governato il tutto, ma senza entusiasmare; c’era nell’intero spettacolo qualcosa come di irrisolto, come se direttore, solisti e orchestra (quest’ultima peraltro in buona forma) non avessero voluto osare più di tanto, come se avessero desiderato tenersi un passo indietro, ponendo in atto un’oggettività un po’ asettica e distaccata (alcuni momenti poi di ristagno qua e là non sono mancati anche con inspiegabili ‘buchi’ pur forse intenzionali).
Non altrettanto si può dire invece della esuberante e a tratti fin pirotecnica regìa di Jean Renshaw che ha infarcito di (fin troppe) trouvailles l’intero spettacolo, tentando di vivacizzare quanto alla musica obiettivamente non sempre riesce. Ma di fatto di regia ipertrofica si trattava, e finiva per distrarre un po’ con quel tourbillon di andirivieni entro il sagace e spiritoso gioco di porte girevoli: ovvero la funzionale ed efficace scena dalla grande ed elegante coerenza cromatica e stilistica di Christof Cremer che firmava anche i costumi spregiudicatamente anti-filologici, impregnati di romantica naïveté gradevolmente intonati alla tappezzeria, con un range cronologico in ordine gerarchico per i personaggi, dal settecentesco Conte ai jeans e le scarpe da footing di Lumaca. E passi per il ronzio del trapano per installare il lucchetto sulla porta della segreganda Ernestina; e il ferro da stiro con l’asse spiegato e ripiegato; e i pazzerelli con maniche e pseudo camicie di forza; e la mimica esasperata dei personaggi, un aspirapolvere, un ombrello apri-e-chiudi, tazze e tazzine, vassoi, un piumino per la polvere ed altro ancora: alla fine il troppo stroppia. Qualcosa si poteva francamente evitare. Pochi intelligenti tocchi di luce (Lorenzo Maletto) a rendere il mutare delle situazioni (il verde per alludere al giardino e via elencando).
Da ultimo una doverosa sottolineatura per Jeong Un Kim che alla tastiera del cembalo ha disimpegnato con scioltezza i non sempre peregrini recitativi ed anche le parti strumentali ‘galanti’ di cui si è detto, affrontate con scrupolo e con cura (e non è colpa sua per la staticità cui si accennava). Molto apprezzato il danzatore-coreografo Martin Dvořák, d’una bravura – ci dicevano gli esperti – davvero ammirevole, anche se di fatto non si è capito bene che cosa ci stesse a fare tale Carosello Dubbio; pur tuttavia movimentava lo spettacolo, dal quale si è usciti – occorre ammetterlo – moderatamente divertiti, ma convinti solamente in parte.