di Luca Chierici
Che La Gioconda sia un lavoro che non può qualitativamente porsi sullo stesso piano del penultimo Verdi, quello del Don Carlos e di Aida è fatto incontestabile. Così come non si può del tutto accettare che il maggior lavoro di Ponchielli venga considerato solamente come un drammone a tinte fosche dove la caratterizzazione dei personaggi è poco riuscita e lo svolgersi degli avvenimenti si perde in un fiume di complicazioni.
L’esperimento ponchielliano è innanzitutto estremamente gradito al pubblico ma anticipa anche certe espressioni del futuro verismo in musica ed è lecito quindi ripensare al problema di un periodico allestimento del lavoro stesso, che merita senza dubbio una presenza non sporadica in repertorio. La Gioconda ha vissuto alla Scala una consuetudine di successi che si è rinnovata partendo dalla prima esecuzione assoluta del 1876 fino ad arrivare almeno al 1952, quando sotto la direzione di Votto cantarono elementi del calibro della Callas e Di Stefano, della Stignani, di Tajo e Tagliabue. Poi il silenzio fino a una ripresa nel 1997 a cura di Roberto Abbado. Ai suoi tempi il titolo scardinò l’ordine delle cose approfittando di una sorta di calo storico di attenzione nella sequenza delle opere verdiane (Verdi dopo Aida non scrive nulla per 16 anni fino a Otello, anche a causa di un non sottovalutabile schock subentrato a causa della morte di Wagner). Non è difficile notare come Boito e Ponchielli, cogliendo in un certo senso la palla al balzo, ossia tentando di inerpicarsi su “vie nuove” mostrino qui tra le altre cose una certa preveggenza nel sottolineare il carattere di alcuni personaggi come Barnaba, quasi un precursore di Jago ma anche di Scarpia, e non solo per la malvagità che accomuna i tre ruoli. Non si dimentichi poi il fatto che Ponchielli ebbe come discepolo Giacomo Puccini, e i conti per una riqualificazione del lavoro del Maestro incominciano a tornare, auspicando l’ascolto futuro di altri titoli dal suo catalogo, e non solo a Cremona dove tanti anni fa si vide una divertentissima rappresentazione de I Lituani.
Per ciò che riguarda i successi di tradizione diciamo subito come non sia lecito paragonare edizioni storiche registrate in studio a produzioni dal vivo. Però il ricordo di tutta una splendida consuetudine ponchielliana pesa ancora oggi, sia per quanto riguarda i cantanti che per la concertazione e la direzione. Quella odierna di Chaslin, al suo debutto operistico alla Scala, è stata contestata dal pubblico in parte a ragione, per una certa mancanza di gestione di un difficile legame tra le varie parti dell’opera, che è risultata più sconnessa del solito. Si è trattato però dell’unico elemento indigesto di fronte a una produzione tutto sommato intelligente, che ha risolto con un certo gusto quasi tutti i problemi insiti nell’opera stessa. E anche la compagnia di canto, che tradizionalmente richiede sei voci, sei caratteri indipendenti e tutti a un livello di proverbiale difficoltà vocale e scenica, ha superato egregiamente la prova nonostante due importanti defezioni, Sonya Yoncheva quale Gioconda e Fabio Sartori nel ruolo di Ezio.
Nel ruolo del titolo si è segnalata Saioa Hernández, che aveva già interpretato nel recente passato questo personaggio, da lei molto amato. Figlia, amante non corrisposta, donna di grande carattere che affronta il male, Gioconda è vocalmente il tipico ruolo di soprano drammatico di agilità che qui deve affrontare tra l’altro perigliosi salti di intonazione, soprattutto nel secondo e quarto atto. Molto notevole nel registro acuto, decisamente meno in quello grave, la Hernandez ha riscosso particolare successo nei suoi momenti chiave come il «Suicidio !» Laura Adorno era Daniela Barcellona, cantante di più che provata carriera ma che è sembrata non sempre in linea con il ruolo e con il tipo di vocalità richiesto dal personaggio. Particolari applausi ha ricevuto l’impervio duetto Gioconda-Laura del second’atto. Enzo squillante e tutto sommato interprete entusiasta e confidente nel proprio ruolo era Stefano La Colla, certo non paragonabile ai cantanti più famosi che hanno interpretato Enzo in un passato più o meno recente, da Di Stefano a Cura, ma comunque lodevole per avere assunto all’ultimo momento l’onere di un compito non certo facile. È stato premiato da convinti applausi al suo «O grido di quest’anima» e al famosissimo «Cielo! E mar!».
Roberto Frontali è stato un validissimo Barnaba in stile Jago/Scarpia, a volte “titogobbeggiante” ma che ha comunque ricevuto la sua buona dose di applausi a partire dal famoso «O monumento !» al termine dell’atto primo. Anna Maria Chiuri (la Cieca), in un abito grigio che suggeriva la sua estraneità a un mondo naturale di colori, esibiva soprattutto all’inizio una voce tremula che non si capiva se era voluta o meno per sottolineare certa fragilità (fisica) del personaggio. Si è riscattata bene nel seguito nella sua romanza «Voce di donna o d’angelo». L’Alvise Badoero di Erwin Schrott, in elegante vestito nero moderno, era particolarmente notevole per l’assertiva presenza scenica e la squisita vocalità. La presenza carismatica di due cori, quello consueto del Teatro e il Coro di voci bianche ha visto al termine la applaudita comparsa dei due direttori, Alberto Malazzi e il “past director” Bruno Casoni.
La coreografia di Frédéric Olivieri è stata realizzata tramite la vincente apparizione degli allievi della Scuola di ballo della Scala per indisponibilità attuale del consueto corpo di ballo scaligero. Al termine del Recitativo e Danza delle Ore nell’atto terzo si è verificata una pausa che ha permesso di tributare i dovuti applausi a tutti i protagonisti del balletto e dei cori.
La regìa di Livermore poggia su un impianto scenico imponente che fa riferimento a elementi geometrici di sfondo che si prestano a complicazioni virtuosistiche alla Escher (nel quarto atto) con un contenitore rettangolare che funge da schermo per le proiezioni (spesso inquadrate nella visione di un mare ondeggiante). Secondo elemento pregnante è una complessa architettura semitrasparente, con un reticolato di tubi al neon, che illustra i ponti e il palazzo del Doge e che, ruotando su se stessa, dà luogo a interessanti ambientazioni che commentano il complicatissimo svolgimento dei fatti. Per ultima, una gigantesca nave, rifugio del proscritto Enzo e dei suoi compari, invade la scena dell’atto secondo, che termina con l’impressionante incendio della nave stessa, come da libretto. Personaggi al contorno assai importanti, specie nel caso della personificazione del braccio armato di Barnaba, sono le figure di Pulcinella di Giandomenico Tiepolo, che rivestono un carattere assimilabile ai terribili Droog di Arancia meccanica. Il tutto è immerso, secondo il regista, in una visione nebbiosa, lattiginosa che dovrebbe essere assimilabile alla percezione che la Cieca ha del mondo che le ruota attorno e che ricorda sia l’atmosfera del felliniano Casanova che la “Venezia celeste” di Moebius.
Le scene di Giò Forma, i costumi di Mariana Fracasso (una a volte eccessiva rivisitazione delle vesti classiche), le luci di Antonio Castro e i video di D-Wok si sono rivelati ancora una volta elementi del tutto in accordo con le idee del regista, dando luogo a uno spettacolo complesso ma a suo modo affascinante. Applausi per tutti, compresi i bravi comprimari, e un generico dissenso indirizzato al Direttore.