di Attilio Piovano
Per il secondo anno consecutivo, a Torino si riaffaccia, in questo scorcio di tarda primavera, il Regio Opera Festival: propiziato e progettato dall’allora commissaria Rosanna Purchia, ora assessore alla cultura del comune di Torino, nonché dal colto e raffinato direttore artistico Sebastian Schwarz.
Suggestiva la location prescelta, en plein air, e si tratta del vasto cortile del centralissimo Palazzo Arsenale, oasi silenziosa pur all’interno del centro storico, ancorché – ammettiamolo – non propriamente ideale sotto il profilo acustico (anni or sono si era utilizzato più volte, invero per concerti, il Cortile interno di Palazzo Reale: perché non riprenderlo in considerazione? Verosimilmente per ragioni di agibilità e sovrintendenza).
Bene aver ‘inaugurato’, la sera di martedì 7 giugno 2022, riproponendo l’allestimento della mascagnana Cavalleria rusticana curato nel 2019 da Gabriele Lavia (ed era una nuova produzione), spettacolo del quale conservavamo vivaci ed entusiasti ricordi. Rivederlo in tale circostanza è parsa una sorta di innegabile e un poco scialba diminutio. La messa in scena è stata curata da Anna Maria Bruzzese che all’epoca fungeva da assistente di Lavia. Uno spettacolo che aveva destato forti emozioni per le idee chiare e lineari poste in atto, tradotte in soluzioni in grado di giungere agli occhi e al cuore degli spettatori. Era stato condotto un lavoro meticoloso sulla recitazione e così pure sui movimenti dei singoli e delle masse (bambini compresi), al servizio di una messa in scena (entro la cavea del molliniano Regio) di forte impatto, realizzata con mezzi tanto semplici quanto efficaci: peccato davvero che il tutto sia risultato ora in parte (diciamolo, a onore del vero, solamente in parte) vanificato dai limiti imposti da una struttura provvisoria, con l’orchestra sul medesimo piano delle sedie in plastica, sicché abbiamo provato, probabilmente, la sensazione di quanto (poco) vedessero gli spettatori in platea di un settecentesco teatro, prima che si inventassero la buca d’orchestra e il piano inclinato della platea.
Mantenute nella sostanza, sia pure con i necessari adattamenti, le suggestive scene (e così anche i costumi) ideati da Paolo Ventura, con l’evocazione di una Sicilia lavica, nella quale a prevalere è il nero: posto a reagire con due vistose ‘strisciate’ rosse, quasi lava incandescente, ma in realtà sono fiori, a simboleggiare passione e sessualità, non a caso il colore rosso è presente nella sola mise di Lola; Anastasia Boldyreva e Marco Berti (rispettivamente Santuzza e Turiddu) hanno fatto del loro meglio quanto a gestualità per restituire la complessità dei personaggi e così pure per simboleggiarne i tormenti interiori e le palpitanti inquietudini, ancorché il ‘chiuso’ del teatro offrisse ben altre opportunità, anche di concentrazione da parte del pubblico. Per dire: Lavia aveva concepito un vero e proprio climax, sicché si trascorreva dalla notte, prevedibilmente umida e costellata di afrori mediterranei, oltre che dominata da una grande luna, alla solarità del giorno. Qui al contrario, si è iniziato lo spettacolo ancora… in piena luce (e allora la difficoltà di puntare lo sguardo sul palcoscenico buio), andando poi progressivamente verso l’imbrunire, con le pur simpatiche e coreografiche mansarde illuminate del Palazzo Arsenale, una falce di luna (vera) nel cielo torinese, terso e limpido, e il piacevole (e talora fin troppo invasivo, ancorché inevitabile) garrire delle rondini, per almeno due terzi dello spettacolo. Ma tant’è, anche questo fa parte del gioco di tentare nuove sfide e portare la lirica al grande pubblico: il parterre pressoché al completo del cortile stesso, occorre ammetterlo, era un bel segno ed è un risultato davvero eccellente sul piano della ‘promozione’ della lirica, nell’intento di ampliare vieppiù il target dei potenziali frequentatori di un mondo – quello dell’opera – tanto meraviglioso quanto tuttora vivacissimo ed attuale.
Certo qualcosa deve venire messo a punto quanto a (presunta) amplificazione o quantomeno, realisticamente, occorre mettere in conto che in uno spettacolo all’aperto gli equilibri fonici tra orchestra, voci e coro non potranno mai essere perfetti; e così pure la valutazione, per dire, delle luci (in tal caso pur corrette, ma semplicemente funzionali) firmate da Lorenzo Maletto, non potrà essere la stessa che si fornirebbe in merito ad uno spettacolo ospitato entro il ‘chiuso’ del teatro, come fu Cavalleria di Lavia.
Mantenuta, in linea di massima, per quanto il palco consentiva, l’attrezzeria fatta di paccottiglia religiosa per la processione di Pasqua, come si conviene ad evocare una religiosità carnale e un po’ pagana, tipica di certo Sud, e allora la statua del Cristo Pantocrate portata in processione, e ancora il tavolaccio dell’osteria con le brocche, mentre invece è stato giocoforza – ovviamente – ‘cassare’ il carretto siciliano e relativo mansueto cavallo nero presenti nel 2019.
Ed ora le voci. Il già citato mezzosoprano Anastasia Boldyreva ha saputo rendere vocalmente una Santuzza convincente (pur con un eccesso di vibrato, a nostro avviso), con le sue contraddizioni, combattuta e determinata, innamorata e disperata. Perplessità circa il baritono Misha Kiria nei panni del carrettiere Alfio, che ha denotato défaillances di intonazione ed anche ritmiche, qua e là, senza riuscire in complesso a conferire tutta la vis tragica che al personaggio appartiene, in bilico tra passione e gelosia, in una vicenda – si sa – sovrastata dal ferale destino. Ingolata e per lo più (quasi) inudibile mamma Lucia di Agostina Smimmero, corretta ma di non particolare rilievo la performance di Valeria Girardello (nei panni di Lola). Da ultimo il Turiddu di Marco Berti (che ha sostituito il previsto Stefano La Colla) e che già aveva impersonato Turiddu nel 2019: era parso all’epoca francamente sopra le righe e troppo sanguigno; ora ha in parte attenuato certe sue aitanti impennate che si rivelano di norma pericolose sul piano dell’intonazione e della precisione ritmica, restituendo di fatto un Turiddu iper verista, ma convincente.
Molto bene il coro che (ottimamente istruito da Andrea Secchi) ha un ruolo non certo secondario in questa storia di amore e morte, eros e Thanatos, gelosia e vendetta, angoscia e maledizione. D’effetto la collocazione, in certi tratti dello spettacolo, ai lati della scena (se non addirittura fuori scena), con effetto stereofonico uomini/donne. Francesco Ivan Ciampa, dal podio – per quanto le condizioni acustiche hanno permesso di comprendere – ha di certo condotto uno scrupoloso lavoro di concertazione, dirigendo con gesto chiaro e lineare: ma per l’appunto l’acustica deficitaria ha finito per vanificare molto del suo operato, quantomeno per quello che abbiamo potuto percepire dalla nostra postazione, pur centrale. Il celeberrimo e toccante Intermezzo ha peraltro – prevedibilmente – suscitato forti emozioni. Applausi convinti a fine serata da parte di un pubblico che già pregusta i prossimi titoli: e si tratta di Carmen (dal 21 giugno), poi Tosca ed il raro Don Checco di Nicola De Giosa in luglio. Né mancano succulenti appuntamenti sinfonici (il 15 luglio, direttore Valčuha, sul versante di Rota, Bernstein, Prokof’ev e Ravel) e sinfonico-corali, mentre a settembre sarà la volta della danza.