di Luca Chierici
Sulla carta, secondo indiscrezioni e presentazioni alla Stampa, il regista Mario Martone era parzialmente riuscito nella difficile operazione di presentare una delle tante possibili riletture di Rigoletto, un’opera più che tradizionale, senza per questo stravolgerne i contenuti.
E soprattutto indovinando corrispondenze e differenze rispetto a un contesto ben noto senza cadere in quelle contraddizioni che spesso trasformano una idea di fondo accettabile in qualcosa che perde di credibilità e di consequenzialità via via che la vicenda prosegue fino al suo compimento. Tutto questo è in realtà avvenuto per una buona percentuale dello svolgimento del soggetto, non fosse stato per un finale “segreto” che ha rischiato di rovinare la parziale accondiscendenza che aveva accompagnato almeno i primi due atti dell’opera.
Dunque, secondo Martone, un ricco e potente Duca si serve di Rigoletto quale pusher, ed è circondato da una masnada di suoi pari o comunque di gente poco raccomandabile che sniffa a più non posso e che rappresenta quella che davvero è la parte esecrabile di tutto il cast, quella che deride il povero Rigoletto, ne rapisce la figlia, è sfacciatamente orgogliosa delle prodezze sessuali del Duca. La scena presenta una visibile separazione tra un mondo di “eletti” e uno di sfruttati, un contesto che trae suggestioni cinematografiche dal “Parasite” di Bon Joon-ho ma che in teatro s’è visto più volte. Il tutto è illustrato da una scena bipartita e girevole voluta da Margherita Palli, che da un lato illustra la sede del potere (il palazzo del Duca) e dall’altro uno squallido ambiente che è pur collegato al palazzo attraverso porte segrete ma che descrive la povertà e lo squallore all’interno del quale vivono sia Rigoletto e Gilda che i personaggi che daranno vita agli accadimenti dell’atto terzo.
L’antica contrapposizione tra Olimpo/Walhalla e terra di sotto funziona sempre e anche in questo caso risulta uno spunto efficace che, forse spingendosi troppo in là, giustifica la visione di un Verdi (e in questo caso anche Victor Hugo) che sottolinea vigorosamente disparità sociali e morali. Non tutto funziona però. Ad esempio la demonizzazione di Rigoletto, visto come essere negativo che tutto sfrutta a proprio vantaggio, è contraddetta da un atteggiamento di amore filiale dello stesso protagonista che è più che evidente sia nel libretto che nel trattamento del personaggio da parte del compositore. La scena finale, che illustra il palazzo del Duca come teatro di una carneficina (i “cattivi” trucidati dagli esclusi che si sono ribellati) poteva forse essere evitata, anche perché è stato il particolare che ha suscitato le maggiori proteste da parte del pubblico.
Per fortuna lo spettacolo è stato salvato dalla presenza di un trio di protagonisti e da un buon cast di comprimari che hanno reso inconfutabile giustizia alla rappresentazione. In ordine di intensità di applauso, vince la Gilda di Nadine Sierra, lontana e non solamente per questioni di regìa, dal desueto prototipo di una giovin fanciulla ignara di quello che le accade. Secondo Martone, Gilda avrebbe doveva ribaltare la tradizionale figura di una eroina inconsapevole, che qui diventa una ribelle pronta a sfidare il padre perseguendo il proprio ideale, materializzato nell’amore senza condizioni verso un uomo affascinante quanto perverso. Gilda si trasforma oltretutto nel corso degli eventi perché nel terzo atto viene presentata con una capigliatura del tutto differente da quella, più femminile, che ne contraddistingue la figura all’inizio. Una Gilda con capelli corti “maschili” che del resto è in linea con il suo travestimento voluto da Rigoletto nel tentativo di farla fuggire verso quel di Verona. La Sierra è un soprano lirico di coloratura che ha risolto naturalmente tutte le insidie del proprio ruolo senza mai eccedere calcando esageratamente i propri virtuosismi vocali. Piero Pretti era il Duca di Mantova, dalla voce ben timbrata e un fraseggio ad hoc per il ruolo. Senza farci dimenticare interpreti scaligeri più sanguigni come Grigolo, ha retto con successo una parte non certo facile, indugiando anche su puntature e acuti che erano stati cancellati nell’epoca mutiana. Rigoletto eccellente, senza gobba d’ordinanza ma sempre leggermente claudicante e curvato sulla sinistra, era il baritono Amartuvshin Enkhbat, originario della Mongolia, e già interprete ben noto di ruoli verdiani. Conoscitore evidente di tutta una imprescindibile tradizione interpretativa, ha sostenuto da par suo un ruolo reso ancor più difficile dalle particolari richieste del regista. Di notevole spessore, tra gli altri, Gianluca Buratto (Sparafucile che più cattivo non si può), Marina Viotti (l’ambigua Maddalena), Fabrizio Beggi (Monterone) e Costantino Finucci (Marullo).
Nella successione a un’epoca in cui Rigoletto era stato “ripulito” da Riccardo Muti di tutte le inconvenienze di una cattiva tradizione, Michele Gamba aveva preannunciato tramite la stampa e le presentazione dell’opera una lettura asciutta e poco melodrammatica, sottolineando il fatto che tale lettura derivava anche da un esame particolarmente attento della partitura originale e da un particolare lavoro di collaborazione con il regista. Non mettiamo in dubbio le sue buone intenzioni, ma il risultato si è condensato ina una serie di atteggiamenti a volte poco condivisibili, con improvvise accelerazioni o rallentamenti ed escursioni di volume sonoro esagerate che hanno spezzato un fluire narrativo spesso poco credibile. La poco riuscita gestione del difficile incipit dell’opera, con l’orchestra fuori scena, ha peraltro lasciato il posto a una più corretta conduzione del seguito. La cronaca finale ha visto numerosi applausi per i cantanti tutti, contestazioni evidenti per il direttore e ancor più notevoli per Martone e tutti i protagonisti della produzione. Al termine, si sono registrate chiamate singole di successo per tutti i protagonisti e ancora contestazioni per la coppia Gamba-Martone.