di Luca Chierici
Popolarissimo, almeno alla Scala, dal suo debutto fino al 1828 e poi dimenticato fino al 1911, Il matrimonio segreto non è mai uscito di repertorio in altri teatri nonostante il passare del tempo, il cambiamento dei gusti e la sempre maggiore predominanza del teatro di Mozart e Da Ponte (non più di tre anni fa avevamo recensito una felice rappresentazione del capolavoro di Cimarosa nel corso del Festival della Valle d’Itria.
Si fa a gara, oggi nel cercare di recuperare una dimensione di eccellenza per un’opera che è sicuramente da annoverare tra le cose più riuscite del compositore e che per certi versi si può considerare il seppur tardivo esempio massimo di dramma giocoso all’italiana. Ma l’ostinarsi nel tacere il confronto con gli esempi mozartiani, di una superiorità neppure commentabile, non rende giustizia a questo titolo, che va considerato con tutti i suoi limiti e che comunque si presta ancora oggi a riletture non banali. L’orecchio a volte è sazio di cadenze perfette, di recitativi secchi molti dei quali non memorabili, di battute facilmente equivocabili dai registi in cerca della risata del pubblico, ma lo spettacolo procede in ogni caso, regala ai protagonisti arie di sincera ispirazione senza cadere nell’effettistico, utilizza il ricorso al virtuosismo con la giusta parsimonia. Insomma, di questo Matrimonio si ammira ancora oggi la misura, lo sguardo spesso memore di un clima felice che risulta oramai sorpassato, vago ricordo di tempi già allora irrecuperabili.
Ancora riproposto nella vecchia “revisione Donatoni”, l’opera è riapprodata alla Scala sotto l’ambigua etichetta del “Progetto Accademia”, che premia le valenze di una scuola di alto livello ma che allo stesso tempo non obbliga la Direzione artistica a scelte più impegnative che dovrebbero coinvolgere cantanti famosi in piena carriera. I lati deboli della produzione – se ce ne sono – rientrano nella categoria dello sperimentale e il successo di pubblico (indubbio) va a tutto onore dei protagonisti. Ottavio Dantone è un indiscusso specialista che dopo una apertura un poco pesante della Sinfonia ha traghettato con mano sicura il cast attraverso le non poche insidie della partitura, sottolineando le parti più liriche senza mai appesantire o dilatare troppo il discorso e traendo il meglio dall’Orchestra dell’Accademia. Valoroso maestro al cembalo era Marco Schirru. I protagonisti hanno contribuito in misura quasi paritetica a una lettura ottimale di questo Matrimonio, con qualche titubanza iniziale che ha lasciato il posto a una scorrevolezza ammirevole. Sono stati il Paolino di Paolo Antonio Nevi e la Carolina di Greta Doveri a rompere il ghiaccio e a loro si sono aggiunti via via l’autorevole/autoritario Geronimo di Pietro Spagnoli senior della Compagnia, il Robinson di Sung-Hwan Damien Park, la bravissima Fidalma di Mara Gaudenzi, e l’altrettanto vivacissima Elisetta di Francesca Pia Vitale.
Fondamentale nella messa in scena di questo titolo è il contributo del regista, che deve intervenire con mano sicura e soprattutto non strafare mediante l’uso di gag che alla fine disturbano la fine ironia del libretto di Bertati. Qui la regista Irina Brook, coadiuvata dallo scenografo e costumista Patrick Kinmonth e dalle luci di Marco Filibeck, ha purtroppo spesso calcato la mano attualizzando le pur evidenti frenesie sessuali dei protagonisti anche quando non se ne sentiva la necessità – si tace dei riferimenti al cosiddetto “gender” nell’ultima parte dello svolgimento.
Per il resto non è certo l’utilizzo di aspirapolvere cordless, telefonini, revolver in mano al minaccioso gangster Geronimo o la presenza di giovanotti che consegnano i pranzi attraverso i vari Deliveroo a stupire lo spettatore avvezzo oggi a ben altro. E del resto già nel recente passato il Matrimonio è stato preso di mira attraverso più che ovvie modernizzazioni. Non si possono più vedere, invece le gesticolazioni dei protagonisti che equivocano in chiave pop i ritmi settecenteschi originali. Alla fine si è ricordato di tutto questo il valore profuso dall’autore e dai protagonisti nei momenti principali dell’opera, dal «Pria che spunti in ciel l’aurora» di Paolino, al «Deh lasciate ch’io respiri» di Carolina, il «Se son vendicata» di Lisetta, tutti i pezzi d’assieme nei quali Cimarosa ripercorre a volte i percorsi del genio mozartiano.