di Francesco Lora
Il Rossini Opera Festival di Pesaro ha appena compiuto la sua quarantatreesima edizione – dal 9 al 21 agosto, ma con antipasti fin dal 18 luglio – e ha i numeri della salute dopo anni resi difficili dalla pandemia e relativa crisi di pubblico: presenze, incassi e stranieri aumentati di circa la metà, per una trentina di spettacoli.
Chi va alle “prime” ha il vanto di portare le più fresche notizie agli amici, ma chi sceglie la coda del festival gode un programma più ricco di concerti. Ecco allora, in prima battuta, uno svelto resoconto di una buona parte tra questi ultimi, tutti tenuti nel Teatro Rossini salvo l’ibrida serata finale. È il terreno più sensibile per qualche appunto musicologico e qualche quotazione artistica. Nel concerto del 14 agosto, per esempio, si adottano a parole le edizioni critiche della Fondazione Rossini, ma dalla preghiera del Siège de Corinthe, dal rondò conclusivo di Zelmira e dalla gran scena di Ermione spariscono in toto i pertichini e persino, nel terzo caso, l’elettrizzante scambio di battute della protagonista con Oreste; la strumentazione puzza di alleggerimento; le due cantanti coinvolte sembrano qui e là forzate a brani poco adatti. Si vuol dire che Giuliana Gianfaldoni, quale Amenaide e Pamyra, incanta per arte del filato e purezza di porgere, come già nella recente Beatrice di Tenda a Martina Franca, ma mostra ella per prima i suoi dubbi davanti alla poderosa Zelmira. Vasilisa Berzhanskaja, dal canto suo, si presenta soprattutto come Ermione e come Tancredi, ma, tra il comprensibile affaticamento per la dolce attesa e il tentativo di conciliare scritture e caratteri così differenti, perde facilità estensiva nel primo caso e velluto timbrico nel secondo, non persuadendo nei panni della più stupenda nevrotica della storia dell’opera, né sembrando in compenso ideale in quella del paladinesco, nobile cavaliere. Il direttore, Vitali Alekseenok, legge un’Ouverture del Siège tale da innescare subito la gioia d’essere tornati a Pesaro, ma dopo questo primo brano s’accontenta d’accompagnare con decoro, anche là ove i brani di Ermione pretenderebbero dionisiaco zolfo, e dove le pagine dall’atto II di Tancredi si gioverebbero di più classica tornitura.
Il programma del 17 è pane per gli addetti ai lavori: una sinfonia giovanile del 1809 e quelle alternative, ancora più inedite, dell’Equivoco stravagante e di Demetrio e Polibio; musiche che documentano, autentiche o posticce che siano, il progresso del linguaggio rossiniano, di Rossini o intorno a Rossini: dirette con cauta correttezza da Fabrizio Ruggero. Piatto forte in locandina, però, sono le musiche di scena per Edipo coloneo, per le quali sarebbe in verità opportuna, nella sua audacia, la riproposta dentro la tragedia di Sofocle: fatte brani da concerto e sciolte dall’azione teatrale, esse possono indurre allo sbadiglio finanche il rossiniano devotamente praticante, con buona pace del diligente Nahuel Di Pierro nell’assicurare loro una morbida voce solista. Quanto al concerto del 18, esso doveva essere un evento memorabile con arie nozzariane – cioè composte per Andrea Nozzari, il titanico baritenore al servizio del San Carlo di Napoli durante la folgorante permanenza di Rossini – affidate a Michael Spyres; dopo il forfait di quest’ultimo, il ROF ha calato a sorpresa, in sostituzione, l’altro asso di Angela Meade: ma anch’ella ha poi abbandonato. Tanto s’è mugugnato che, alla fine, ne è venuto fuori un capolavoro di pomeriggio musicale, tutto strumentale, con Daniel Smith a dirigere con fraseggio sferzante, lucido, esemplare le sinfonie della Gazza ladra e del Barbiere di Siviglia, più quella, da lui rivelata in un’agogica mobilissima, del Pirata di Bellini: sarebbe ora più che meritato, da lui e per tutti, ritrovarlo al ROF in un’opera intera.
Il 20 agosto, infine, la genuina Orchestra sinfonica “Gioachino Rossini”, ascoltata il 14, e la meno tecnicamente ferrata Filarmonica Gioachino Rossini, ascoltata il 17 e il 18, nonché ancora il Coro del Teatro della Fortuna di Fano, ascoltato nelle prime due date, hanno ceduto il campo a un recital per voce e pianoforte: è stata l’occasione per un ritorno alla ribalta di Barbara Frittoli, con un programma vocale ripartito tra Rossini, Tosti e Martucci, più, quanto al bis, l’immancabile Cilea della sortita di Adriana Lecouvreur. L’estensione, lo smalto, il garbo e la risonanza del soprano milanese sono ancora lì, come li si ricordava fino a una quindicina d’anni fa e alla successiva, spiazzante eclissi: un po’ d’affanno, qualche velatura, molta emozione, in sé veniali, dai quali si può e si dovrebbe ripartire. Ma a preoccupare non è tanto l’isolata e malriuscita nota finale in Cilea, quanto il seguente, irriferibile improperio col quale la cantante, affranta per l’errore, perde il controllo di sé davanti a pubblico che l’ama. Spiace, perché d’una Frittoli ci sarebbe più bisogno oggi di quanto ve n’era allora.
Oltre al canonico Viaggio a Reims affidato ai giovani cantanti usciti dall’Accademia rossiniana, canonicamente tre sono stati i titoli d’opera nel cartellone del festival: Otello, La gazzetta e Le Comte Ory, vale a dire, rispettivamente, la più popolare delle opere fino alla seconda metà inoltrata dell’Ottocento, un titolo buffo concepito nello stesso anno e per la stessa città di Napoli, un capolavoro francese che necessita più che mai d’essere ben inquadrato. Al contrario, questo Comte Ory, dato nella Vitrifrigo Arena, è stato l’anello debole dell’offerta operistica. La vera natura di tale lavoro è nel filone libertino, sinistro e persino diabolico dei Don Giovanni, dei Faust o anche, al femminile, delle Carmen: storie di chi non si fa molti scrupoli, in certo modo filosoficamente, a usare le vite altrui per sollazzo della propria. Sul Comte Ory pesa invece l’equivoco d’essere preso per opera buffa, anzi buffissima, e nel nuovo allestimento del ROF, con regìa, scene costumi di Hugo De Ana, esso diviene definitivamente avanspettacolo ridanciano e volgarotto, iconograficamente sospeso tra il simbolismo di Hieronymus Bosch – privato però dei suoi significati, limitato cioè a stravaganza visiva – e certo volgare intrattenimento televisivo da rete privata. Juan Diego Flórez, anche direttore artistico del festival, perde così l’occasione d’indagare, finalmente, l’autentico profilo psicologico del protagonista, e lo replica secondo una convenzionale brillantezza già da lui usata, nella parte, tante e tante volte: proprio egli che, avendola in repertorio da un quarto di secolo, la snocciola ancora con freschezza invidiabile e potrebbe restituirla a sulfurea lettura teatrale. Per smaliziata vaporosità di canto e spigliatezza recitativa, eccelle invece su ogni fronte, al di sopra del progetto registico, Julie Fuchs come Comtesse de Formoutiers. Chiamato d’urgenza a rimpiazzare il previsto Ildebrando D’Arcangelo nella Semiramide del 2019, Di Pierro fu applaudito come Assur anche data la situazione e con l’aiuto di Michele Mariotti sul podio: il suo onesto Gouverneur, oggi, inviterebbe a maggior cautela nel puntare tanto su di lui per le parti di basso rossiniane. Simpatico il Raimbaud di Andrzej Filonczyk, sprecata la Dame Ragonde della sempre sopraffina Monica Bacelli, spigliato l’Isolier di Maria Kataeva. Stilizzata e neutra la concertazione di Diego Matheuz, il quale è soprattutto assistito dalla fortuna di trovarsi schierata davanti l’Orchestra sinfonica nazionale della Rai, in sé superba per piglio e nettezza, e con la tavolozza rossiniana sempre meglio assimilata dopo questi primi anni di ritorno al ROF. Peccato mortale: del Comte Ory esiste una favolosa edizione critica curata da Damien Colas per l’editore Bärenreiter, ed ecco invece aperta, sui leggii del festival rossiniano per eccellenza, la vecchia edizione di tradizione, zeppa d’approssimazioni e col testo parecchio scorciato; va bene il legame privilegiato del ROF con la Fondazione Rossini, e dunque con Casa Ricordi, ma, se la Fondazione non ha ancora prodotto la propria edizione, bisognerebbe guardarsi da passi che ledono la credibilità scientifica dell’operazione festivaliera: anche a costo di rivolgersi alla concorrenza.
Minore pretesa ma bella riuscita vanta La gazzetta nel Teatro Rossini, con ripresa dell’allestimento del 2015 – pare ieri – con regìa di Marco Carniti, scene di Manuela Gasperoni e costumi di Maria Filippi. L’idea teatrale non ha forza memorabile, ma scorrevolezza sì, e soprattutto si lascia riempire dal talento scenico dei buffi di turno. Quello caricato corrisponde al più verace di idioma, al più sontuoso di canto e al più comico di modi tra ogni Don Pomponio Storione mai passato per Pesaro: ed è Carlo Lepore. Il buffo nobile, cioè la parte di Filippo, è assegnata a sua volta a Giorgio Caoduro, attore arguto, moderno, semplice, adorabile, il quale pare anche essere il massimo virtuoso rossiniano oggi in circolazione per la sua corda: l’esecuzione dell’aria «Quando la fama altera», che è tutta una semicroma, finalmente eseguita con l’intera opera, sta lì a dimostrarlo ed è il trionfo conclamato della serata. Per Maria Grazia Schiavo la parte della primadonna Lisetta è forse arrivata un filo tardi, mentre per Pietro Adaìni quella dell’amoroso Alberto è forse arrivata ancora presto. Ben domate e caratterizzate, nel canto e sulla scena, le parti di Doralice, da parte di Martiniana Antonie, e di Madama La Rose, da parte di Andrea Niño. Carlo Rizzi, infine, interprete rossiniano di remota data, è viepiù scaltro a ogni ritorno pesarese, e lavora di fino anche col rustico ma saporito materiale dell’Orchestra Rossini e del Coro di Fano.
La nuova produzione di Otello è, in ultimo, la gemma di questa edizione. Lo è per la concertazione di Yves Abel, forse non geniale ma nel pieno possesso delle facoltà tecniche e pronta a dar fuoco alle polveri dell’Orchestra della Rai: si ripassa una volta di più quale eccelso strumentatore fosse Rossini, e ciò significa anche che sul podio v’è un maestro capace d’asserirlo. Ma quest’Otello giganteggia non meno a ragione per l’allestimento con scene di Tiziano Santi e costumi di Ursula Patzak a servire la regìa schietta, tagliente, perfetta di Rosetta Cucchi, la quale null’altro porta in scena se non il decorso d’un femminicidio nell’alta società, in un gorgo di sopraffazioni insospettabili che corrispondono al delirio d’onnipotenza dell’uno, al senso d’inadeguatezza dell’altro, alla possessività malata del terzo e alla predestinazione di una vittima comune. La Cucchi non solo impalca l’idea valida, ma anche sa realizzarla nel lavoro con gli attori, vantando la precedente esperienza di musicista che le dischiude intuizioni musicali sopraffine: tra i dettagli, forse d’uno non s’è ancora specificamente riferito, ed è quando intorno a Otello uxoricida, nel finale, con qualche inverosimiglianza, accorrono ad accoglierlo, inconsapevoli, coloro che prima l’avevano avversato; lì la Cucchi organizza, sul fondo, la visione di un parallelo mondo di riconciliazione, al fuori della realtà, cui Otello avrebbe agognato con tutta l’anima e che egli stesso ha annullato per sempre. Una lettura teatrale di spessore insigne, senza arzigogoli, che sarà un privilegio ritrovare l’anno prossimo nel Teatro Filarmonico di Verona. Il capitolo cantanti è temibile soprattutto a proposito dell’Otello rossiniano: a partire dal protagonista. Enea Scala squilla e rimbomba come nessun altro – vien da dire – in questo repertorio, dal Sol profondo al Re sopracuto, sgranando i passaggi d’agilità, legando le melodie spianate, elargendo variazioni senza rete, il tutto con una facilità tale da lasciare attonito l’uditorio; e pazienza per quei vociologi da bar che stanno a sofisteggiare sulla qualità timbrica, né s’accorgono che voci tenorili timbrate in modo più italico e ortodosso quasi non ve n’è. Ciò che funziona non del tutto bene è la risoluzione dell’accoppiata tra il tenore baritonaleggiante, cioè Otello, e quello contraltino, cioè Rodrigo: se non fosse per la differenza di tessiture, il canto di Scala e quello di Dimitry Korchak, suo degno rivale in scena, tenderebbero a confondersi per ampi tratti, e ciò non dovrebbe avvenire entro una compagnia sapientemente assortita. Il giusto contrasto si sarebbe avuto con una natura vocale come quella di Antonino Siragusa, che invece tiene, e bene, con quei modi ipocritamente volatili, la parte di Iago. Roccioso l’Elmiro di Evgeny Stavinsky. Magnifica la primadonna: questo perché Eleonora Buratto, che già canta il Verdi e il Puccini onerosi, da qualche tempo a questa parte s’è messa in testa d’affrontare anche il Rossini serio, e là ove ci s’aspetterebbe registro impettito e coloratura arruffata si trova invece una Desdemona da manuale, con porgere fermo eppure delicato, con nitida vocalizzazione di forza, con la naturalezza di linea e timbro, infine, che sempre s’esige da Mimì e che in una parte concepita per Isabella Colbràn sembrava invece una pretesa inaudita. Frattanto, s’affili la curiosità intorno ai titoli del ROF già annunciati per il 2023: Eduardo e Cristina, Adelaide di Borgogna e Aureliano in Palmira, tre opere con drammaturgie musicali in parte sovrapponibili, nelle quali la direzione artistica è attesa a prove di virtuosismo.