di Gianluigi Mattietti
Donaueschingen è sempre un punto di riferimento per la nuova musica: nove concerti in tre giorni, con 26 prime mondiali, oltre a varie istallazioni sonore ed altri eventi musicali, hanno catturato l’attenzione di un pubblico molto vasto e internazionale, anche per la presenza di alcuni sottili fil rouge che attraversano la variegata programmazione.
Una scelta originale, e anche un po’ sconcertante, è stato il ciclo di pezzi dedicati alla malattia di Parkinson, commissionati da Musik der Jahrhunderte e destinati ai Neue Vocalsolisten e al virtuoso del clarinetto basso Gareth Davis. Lavori che riflettevano sul controllo e sulla perdita di controllo, sulla transitorietà e sulla resistenza, sulla capacità dell’uomo di adattarsi a nuove situazioni, sulle discriminazioni legate alla salute e all’età. In darkness, Evis Sammoutis prendeva spunto dal song In darkness let me dwell di John Dowland («Per me è un’opera che incarna tutto ciò che è umano: bellezza e decadenza, vita e morte, l’entusiasmo per la finezza della musica e la profonda tristezza veicolata dal testo»), che veniva rimontato usando lo stesso testo e gli stessi manierismi musicali, ma alterando i ruoli nel rapporto tra voce e accompagnamento, facendo anche suonare ai cantanti piccoli strumenti (fischietti, tubi armonici, kalimbe, armoniche a bocca), creando una grande varietà di trasformazioni sonore, di situazioni instabili e contrastanti (ad esempio tra pulsazioni regolari e suoni striduli) che rendevano molto bene, e poeticamente, l’idea della perdita di controllo. Un rapporto più diretto, e drammatico, con la malattia di Parkinson, è stato quello ricercato da Bernhard Lang nella sua Cheap Opera #3 “May”, che si rifaceva al caso concreto dell’architetto e scrittrice May Kooreman. Questa «Documentary Chamber Opera» si basava sui disegni e sugli scritti della Kooreman (proiettati sullo schermo), e cercava di esplorare attraverso la musica l’impatto e gli effetti collaterali del morbo di Parkinson sulla mente di un individuo creativo. Le sei voci, che intonavano il testo, cantando, parlando, sussurrando, si intrecciavano con il clarinetto basso e con una parte elettronica su otto canali, creando una trama sonora avvolgente, con atmosfere diverse per ciascuna delle dieci scene che componevano l’opera, dai momenti aggressivi, pulsanti, ritmati come un rap, a zone madrigalistiche e ipnotiche.
Molti lavori miravano esplicitamente alla cancellazione di ogni logica consequenziale nella costruzione formale, alla ricerca della massima eterogeneità dei materiali e degli stili musicali. La descrizione di un caos domestico nel romanzo di Thomas Pynchon L’arcobaleno della gravità, suggeriva a Joanna Wozny, in Blenden/Tilgungen (eseguito dal Talea Ensemble), di intessere una trama rarefatta di suoni secchi, isolati, che periodicamente si addensavano in un percorso musicale pieno di soprese. Altra fonte di ispirazione erano i saggi dello scrittore martinicano Édouard Glissant, come Poétique de la Relation e Introduction à une poétique du divers, che propongono un’alternativa radicale al pensiero europeo, un pensiero non logico-deduttivo, ma “arcipelagico”. Martin Schüttler, in i wd leave leaf & dance per orchestra e live electronic, ha creato ad esempio un pezzo “eterosonico”, accumulando materiali disparati e frammentari, suoni isolati, accordi sinfonici, micro-citazioni, fasce vetrose, cigolii, pulsazioni secche, tracce pop, come una rete di particelle sonore, tenute insieme dalla corrente ritmica: questa sorta di “zapping sonoro”, ingenuo e spiazzante, era però capace di creare all’ascolto l’immagine di una materia sonora plasmabile all’infinito. Al pensiero di Glissant faceva riferimento anche Hannah Kendall, in shouting forever into the receiver (urlando per sempre nel ricevitore: da un passo del romanzo di Ocean Vuong, Brevemente risplendiamo sulla terra). L’emergente compositrice inglese, allieva di Georg Friedrich Haas e George Lewis, fedele alla sua poetica di «coniugare immagini evocative all’interno di costruzioni drammatiche», raccontava nel suo pezzo le sofferenze della diaspora africana, mescolando estratti parlati dall’Apocalisse, come distorte comunicazioni radiofoniche, bolle armoniche dell’ensemble strumentale (l’Ensemble Modern), suoni di armoniche a bocca che procedevano come un respiro lento e affannoso, carillon che riproducevano l’Inno alla Gioia e Für Elise di Beethoven, le variazioni su Ah! vous dirai je, Maman di Mozart, An der schönen blauen Donau di Strauss, con un effetto inquietante.
Nei lavori eseguiti a Donaueschingen emergeva una certa varietà di connotazioni poetiche, di riferimenti al mondo fisico, ai meccanismi della percezione. Alle sfocature della memoria si riferiva ad esempio Outside the Realm of Time, bel lavoro orchestrale e multimediale di Agata Zubel, cui è andato anche il premio dell’Orchestra SWR. La stessa compositrice-performer interagiva con l’orchestra in forma di “ologramma cantante”: proiettata sullo schermo, interveniva infatti con brevi squarci vocali, sfoggiando modalità di emissione vocale sempre diverse, e indossando abiti sempre diversi, apparendo e scomparendo nel nulla, a volte sdoppiandosi e duettando con se stessa, con immagini fluide, sfumate, o disturbate, proprio come i ricordi. Il gioco di interazione tra reale e virtuale, molto di moda, calzava assai bene con l’assunto poetico, anche se era realizzato in modo piuttosto low-tech, rispetto ad altri lavori, per esempio di Van der Aa, di Steen-Andersen o di Stefan Prins. All’infinita varietà delle forme delle nuvole si ispirava invece Wolkenatlas di Malika Kishino, che intendeva rappresentare, attraverso il suono dell’orchestra, tutti i tipi di transizione tra stati “intangibili” delle nuvole, in un pezzo oscillante tra ordine e caos, tra contemplazione e dramma, ma stranamente più drammatico che atmosferico, con una materia orchestrale che si gonfiava, esplodeva, si scatenava in ridde selvagge. Insomma più che la sostanza impalpabile delle nuvole, sembrava evocare le eruzioni di un vulcano.
Altro comune denominatore di molti pezzi era il frequente richiamo a composizioni classiche, che non si traduceva però in esiti “neoclassici”, ma piuttosto agiva come forza evocatrice, legandosi a momenti autobiografici e riferimenti al mondo dell’infanzia, rivelando una vena intimistica che scorre in profondità in molta musica contemporanea. Children’s Songs di Christian Winther Christensen era un pezzo per ensemble giocoso e fragile, basato su semplici canzoni per bambini («l’universo delle canzoni per bambini ha iniziato ad affascinarmi dopo che sono diventato io stesso padre di due bambini» confessa il compositore danese), idealmente riferito alle Kinderszenen di Schumann e al Children’s Corner di Debussy. L’approccio decostruttivo, tipico del compositore danese, appariva qui meno elaborato del solito, risolto in una sorta di suite fatta di piccoli episodi discontinui, con un materiale molto scarno, frammenti di scale, sonorità soffocate, sequenze armoniche spezzate, con alcuni brevi inserti filmati (una bambina seduta al pianoforte guardava incantata e poi cominciava a cantare) e un finale a sorpresa durante io quale veniva costruita casa di lego “sonante” (ogni pezzo aggiunto innescava un suono attraverso dei sensori), sconfinante nell’opera istallativa. Elementi scenici erano presenti anche in un delizioso lavoro per orchestra di Arnulf Herrmann, Ein Kinderlied (Dämonen), che prevedeva un giradischi posto di fronte all’orchestra e due altoparlanti che ruotavano lentamente sopra l’orchestra stessa. Punto di partenza e cornice di tutto il pezzo era una celebre canzone per bambini, che risuonava su un vecchio disco nella versione brahmsiana del Lied Sandmännchen (un vinile Deutsche Grammophon del 1943), che con il suo gracchiare funzionava anche come ipostasi sonora di un vecchio ricordo. L’intreccio di tristi melodie nell’orchestra, i suoi cullanti ondeggiamenti creavano effetti di sfocature, penombre, acquistavano un respiro sinfonico, diventavano materia densa e martellante, come un incubo improvviso, poi sospesa e misteriosa, e alla fine frenetica, incandescente, per poi svaporare in brevi echi del Lied, come un fantastico viaggio nel mondo dei sogni che terminava quando la puntina si alzava dal disco.
Al Lied di Schubert Gretchen am Spinnrade si riferiva il nuovo lavoro di Mauro Lanza Gretchen and the fragment on machines per 11 strumenti: la progressione armonica del Lied schubertiano, associata a diversi schemi ritmici, si trasformava in una trama pulsante, di suoni e soffi secchi, sordi, con una periodicità irregolare, in un processo che si espandeva, per poi mostrare solo lo scheletro ritmico, come il meccanismo di un telaio. Un esplicito richiamo all’haydniana Sinfonia degli addii emergeva infine in weiter und weiter und weiter… di Georg Friedrich Haas, il pezzo più bello di tutto il festival, affidato ancora all’Ensemble Modern, che si concludeva con gli strumentisti che via via si alzavano e lascavano il palcoscenico. Anche in questo caso entravano in gioco ricordi e elementi autobiografici, alcune poesie scritte dal compositore adolescente e piene di disgusto per il mondo e per il «perbenismo nazionalsocialista» della sua famiglia: il gesto finale dei musicisti era dunque da intendersi «come affermazione che abbiamo sempre la possibilità di alzarci e andarcene». Tutto era costruito come un inesorabile accelerando basato su piccoli elementi tematici reiterati, ma con una sorta di processo di abrasione che via via li sminuzzava (in valori sempre più brevi e intervalli sempre più piccoli) fino a ridurli a tremoli o trilli. La concatenazione e sovrapposizione di questi processi, che si caricavano e si scaricavano periodicamente, generava continue metamorfosi armoniche e timbriche e una trama frenetica, trascinante, ma monodirezionale, come una scala infinita di Escher-Penrose, l’immagine di un’eterna compulsione, piena di illuminazioni, come un viaggio psichedelico.