di Luca Chierici
Il recital che il violoncellista Nicolas Altstaedt e il pianista Alexander Lonquich hanno tenuto l’altra sera per le Serate Musicali di Milano era molto interessante per la proposta in una serata di un programma compatto ed esteso dedicato all’esecuzione delle cinque sonate di Beethoven.
Una breve introduzione storica ci aiuta a capire meglio sia il programma in questione che l’esistenza di una certa problematica interpretativa. È noto come il violoncello abbia faticato non poco a raggiungere una sua collocazione nel repertorio in quanto strumento solista o comunque di pari importanza rispetto al violino o alla viola. Mozart e Haydn non scrissero sonate per violoncello e pianoforte e il solo Haydn sentì l’urgenza di dedicare allo strumento un paio di concerti tuttora assiduamente frequentati dai massimi interpreti. Per i depositari dello stile classico il violoncello era comunque una voce inter pares che dialogava nei complessi da camera come il quartetto o il quintetto per archi, e tale rimane anche in Beethoven, con una vistosa differenza rappresentata dalle cinque sonate. Mentre le dieci sonate per violino e pianoforte coprono un arco di tempo che va dal 1797 e il 1803, e contemplano dunque le soglie della cosiddetta “terza maniera” solamente da lontano, con le iridescenti armonie della Sonata op. 96, le cinque sonate scritte per il duo violoncello-pianoforte si collocano cronologicamente in maniera più distanziata e sono rappresentative di aspetti totalmente differenti della creatività beethoveniana.
Se le prime due Sonate dell’op. 5, scritte nel 1796 a Berlino, risentono pur nella loro magnifica invenzione musicale delle circostanze occasionali dovute al soggiorno del musicista alla corte di Federico Guglielmo II di Prussia, appassionato violoncellista, la solitaria Sonata op. 69 (1807) e soprattutto le due Sonate dell’op. 102 (1815) sembrano completamente esenti da suggestioni esterne e quindi idealmente collocabili sul terreno della pura creazione artistica. In particolare le Sonate op.102 sono storicamente assai importanti proprio perché coincidono con l’affacciarsi di quei caratteri stilistici che hanno determinato l’individuazione dell’ultimo stadio creativo beethoveniano. Addirittura si può affermare che certi raggiungimenti estremi nel campo dell’astrattezza formale, certe punte affilate del linguaggio beethoveniano sono più evidenti in questi due lavori relativamente poco eseguiti piuttosto che in certi luoghi “difficili” per antonomasia quali le ultime Sonate per pianoforte o gli ultimi Quartetti. Il fatto è che i caratteri tipici del tardo stile beethoveniano, qui ravvisabili ad esempio nelle spigolosità dell’allegro fugato che conclude l’op. 102 n. 2, assumono un significato ancora più eversivo proprio in virtù dell’impasto timbrico tra i due strumenti, spesso utilizzato per accentuare le difficoltà di linguaggio, non per smussarne le asperità.
Ora, data per scontata la bravura e la musicalità dei protagonisti del Concerto, solisti ben noti al pubblico e protagonisti di una forte carriera internazionale, si è percepita una certa disparità di vedute tra il pianista e il cellista e allo stesso tempo si è notato, nel caso di Altstaedt, un approccio che non tiene conto della notevole differenza stilistica e di contenuti tra i tre gruppi di sonate appartenenti ad altrettanti periodi differenti dell’arco creativo beethoveniano. Ciò che ha colpito è stato senza dubbio un confronto quasi violento da parte di Altstaedt, che può essere parzialmente giustificato dalla volontà di sottolineare a tutti i costi le novità del linguaggio, già presenti nelle Sonate op.5.
Confesso però che un maggiore equilibrio formale da parte del cellista e un maggiore accordo con Lonquich sarebbe stato preferibile, in una sala che in passato aveva visto esibirsi in questo repertorio , seppure parzialmente, artisti del calibro dei violoncellisti Fournier e Tortelier, “accompagnati” da Nikita Magaloff. Non si tratta esclusivamente di classicità di vedute contrapposta a un confronto più “moderno”, bensì della ricerca di un equilibrio che è pur necessario quando ci si trova di fronte a un materiale inventivo che è si al di là del suo tempo, ma che è pur sempre legato a certe convenzioni esecutive. E l’intervento di Lonquich, più calibrato verso questo tipo di convenzioni, sembrava a volte sottomesso al furore espressivo del violoncellista. In ogni caso si è trattato di una serata di grande valore che ha permesso al pubblico di meditare su una produzione che appartiene a quanto di più alto sia stato espresso nel campo della musica da camera, presentata integralmente e quindi particolarmente adatta a trasformare una serata concertistica in un vero e proprio progetto culturale.