Vent’anni fa moriva a New York il grande compositore novecentesco più discusso, trasversale e forse ancora poco assimiliato dal grande pubblico
di Giampiero Cane
JOHN CAGE (1961): “A chiunque possa interessare: I ‘quadri bianchi’ vennero per primi: il mio pezzo silenzioso venne più tardi”. I quadri bianchi, così come quelli neri, erano di Robert Rauschenberg. Lo racconta Cage nell’Autobiografia: “Un giorno Bob venne da me e mi portò un dipinto che aveva appena finito. Era un nuovo quadro dei ‘black paintings’. Ebbi il dubbio che si aspettasse da me maggior entusiasmo. Avevo sempre avuto la massima ammirazione per il suo lavoro e poteva aver pensato che fossi in qualche modo deluso. Mi accorsi subito che era terribilmente turbato, quasi sul punto di piangere. Mi chiese se secondo me c’era qualcosa che non andava nel dipinto. Per questo lo rimproverai, semplicemente dicendogli che egli non doveva dipendere dall’opinione di nessuno, che non avrebbe mai e poi mai dovuto cercare quel tipo di appoggio da un’altra persona”.

In Cage c’era certo un diletto per la pittura, ma anche una maniera di valutarla che sembra farne un’arte un poco minore nei confronti della musica. Non è la sua semplicità: “Credo che le arti visive contemporanee ci forniscano numerosi esempi di situazioni che raggiungono una straordinaria semplicità. Penso, a esempio, ai ‘white paintings’ di Robert Rauschenberg che sono assolutamente privi di immagini”. È il semplicismo cui si applica, per esempio, Jackson Pollock, ed esso ha una rilevanza che è significata dallo scarto che s’interpone nella valutazione di Cage tra quest’ultimo e Mark Tobey.
Con Pollock è in atto, infatti, un automatismo comportamentale che, secondo Cage, produce un ripiegamento su se stessi, sulle proprie sensazioni, che è proprio ciò da cui ognuno dovrebbe liberarsi. Tutto l’espressivo è un qualcosa dell’io che risulta limitante, nocivo, alla produzione artistica: surrealistico o espressionistico che sia, esso porta la soggettività nell’opera. Non si tratta solo di insensibilità nei riguardi dell’umanesimo e di quanto lo ha seguito fino al romanticismo, ma in Cage è attiva una sorta di continua attenzione a respingere il progetto umano di farsi misura delle cose e del mondo, di creare dei o demoni a propria immagine e somiglianza, di antropomorfizzare la natura.
Cage liquida un po’ tutti insieme i pittori della Pop Art, “poco interessanti come il Surrealismo”, anche se non è un surrealismo dell’individuo, ma della società
Uscito da una mostra di Tobey alla Willard Gallery “stavo aspettando l’autobs – racconta – all’angolo della Madison Avenue; guardai la superficie del marciapiede e mi resi conto che quel che vedevo mi dava la stessa sensazione che avevo avuto guardando i dipinti di Tobey. Proprio la stessa, così come il piacere estetico che mi procurava era altrettanto alto”. Così Cage ne parla: “Era un dipinto che non raffigurava nulla […] era per così dire completamente astratto. Non aveva riferimenti simbolici. Si trattava di una superficie che era stata completamente dipinta: ma non era stata dipinta in modo da suggerire quell’astrazione geometrica che allora m’interessava. […] Quello che abbiamo nel caso di Tobey, come in quello della superficie del marciapiede, e come in gran parte dell’Espressionismo astratto è proprio una superficie assolutamente priva di qualsiasi centro d’interesse. […]Possiamo guardare prima una parte e poi un’altra, e per quanto ci è possibile avere un’esperienza dell’insieme. Ma quest’insieme è tale che non sembra delimitato dalla cornice. Sembra che possa proseguire, espandendosi oltre la cornice. In altre parole, è come se non stessimo parlando di pittura, ma di musica, di un’opera che non ha inizio, né parti intermedie, né fine, ed è priva di punti focali”.
Ricordando che non ha un titolo e che non necessariamente ha questa durata, cos’altro serve a spiegare Tacet, o 4’33” ? Cage lo chiama “il pezzo silenzioso”, dicendo che di fatto ciò che lo spinse a scriverlo non fu il coraggio, ma l’esempio di Robert Rauschenberg, dei suoi ‘white paintings’. “Non appena li vidi mi dissi: Sì devo farlo, altrimenti rimango indietro, altrimenti la musica rimarrà indietro”.
P otrebbe stupire il fatto di non incontrare in Cage una presa di posizione contro il nome “espressionismo astratto”: tutto ci dice che il sostantivo non dovesse toccare le sue corde; l’aggettivo porta una correzione che costituisce quasi un ossimoro nei confronti di ciò che qualifica. A John Cage l’espressione non piace, gli piacciono le esperienze che può fare, gode delle modifiche ch’esse portano in lui. E’ attentissimo all’atto esecutivo: il caso può avere contribuito a costituire il testo, ma esso va eseguito tale qual è, con perizia e applicazione. Contesta, per esempio a Pollock una grossolanità che non vede in Tobey. Forse, se se ne conosca l’arte solo in riproduzione, i due potrebbero facilmente venir confusi l’uno con l’altro. Non è il caso di John Cage. Anzi, parlando delle tele del più giovane, quindi di Pollock, egli ci dice che, proprio in virtù d’una certa familiarità con le tele dell’altro, “era facile capire che aveva preso cinque o sei barattoli di vernice, senza neppure prendersi la briga di modificare il colore della vernice che colava dal barattolo, lasciando più o meno meccanicamente – con gesti in cui, ovviamente, credeva – che questa vernice colasse sulla tela”. In quel modo, il colore non poteva interessarlo, perché non cambiava. “Se invece si guardano i Tobey, si può vedere che ogni pennellata ha un bianco leggermente diverso. E se guardiamo la nostra vita di ogni giorno, possiamo accorgerci che non viene fatta sgocciolare da un barattolo”.
Il dripping gli sembra dunque un buttar lì le cose.
La distanza tra arte e vita è superata dallo svolgersi di un’esperienza. Questa non può consistere per il libero arbitrio anarchico nel farsi prendere per mano e farsi guidare a comprendere. Cage non tanto imputa di fare ciò ai movimenti realistici, sìmbolici/surrealisti, quanto li dice poco o affatto interessanti perché questo fanno. Egli vuole che si sviluppi la coscienza personale e si modifichi nell’esperienza sensibile, come nel caso raccontato del marciapiede all’angolo della Madison. Per sé vuole crescere con le sue proprie esperienze, farsi. Vuole frequentare Duchamp e imparare a giocare a scacchi. Duchamp gli chiede se già sa come si muovano i pezzi e, data la risposta positiva, cominciano a frequentarsi attorno alla scacchiera. Mai dalle parole di Cage risulta una sua crescita in qualche modo eterodiretta.
Così di fronte al quadro. Esso non ha uno scopo, ma è l’occasione per guardare. “Guardando il Large Glass [di Duchamp], la cosa che mi piace così tanto è che posso focalizzare la mia attenzione dove voglio. Questo mi aiuta a rendere indistinta la separazione tra arte e vita e produce una sorta di silenzio nel lavoro stesso. Non c’è nulla in esso che mi richieda di guardare in un posto piuttosto che in un altro, o addirittura proprio nulla che mi richieda di guardarlo.”

Anche se nell’opera di Duchamp, i dati immediati della sensazione, il guardare dell’occhio è reso inconsistente sia dalla trasparenza dell’oggetto che, e soprattutto, dalla necessità di trascorrere dalla percezione visiva a quella intellettuale, Cage non valuta per questo negativamente quell’arte, ma elabora una strana teoria per la quale “per la musica vale il contrario di ciò che è vero nelle arti visive”. “In altre parole – ci dice Cage – ciò di cui si aveva bisogno nell’arte quando Duchamp fece il suo ingresso sulla scena non era attinente alla fisicità del vedere, mentre ciò di cui si sentiva la necessità nella musica, quando io feci il mio ingresso, era l’esigenza di una fisicità relativa all’atto di ascoltare”.
Può darsi che in questo caso ci si trovi di fronte a un processo di razionalizzazione, ma per quel che riguarda le sue partiture grafiche, che vennero esposte per la prima volta per un concerto alla Town Hall che celebrava, con un po’ di ritardo, i venticinque anni del musicista, il coinvolgimento del piacere visivo sembra da connettere soltanto con la necessità di una scrittura che permettesse di avere suoni di altezza non determinata, cosa che col pentagramma non s’accorda. Più tardi però, dedicandosi un poco ad acquarelli o inventandosi materiali e tecniche, come artista Cage non s’avvicinerà affatto a Duchamp, la sua astrazione non darà vita anche una possibilità di astrazione dal vedere.
Il luogo in cui più che altrove, aspetti visivi e sonori si sono trovati a mescolarsi in una situazione che li accomunava è da considerare la compagnia di danza di Merce Cunningham. Vi hanno spesso collaborato Jasper Johns e John Cage dando vita a progetti d’allestimento che non chiedevano affatto la convergenza nell’integrazione tra immagini, suoni e azioni coreografiche. Erano figli di una lezione di Marcel Duchamp, quella per cui l’accadere si consegna allo spettatore, il quale col dargli un senso lo finisce. Dal punto di vista dell’opera è quel protendersi verso l’altro, quel tendergli la mano di cui scrisse Renato Barilli, certo non ignaro di Duchamp, ribadito da Cunningham che giudica ottimale la risposta di spettatori “capaci di completare dentro di sé, ciascuno a suo modo, lo spettacolo che viene loro offerto. Quello che io penso della danza – continua il coreografo -, cioè del movimento del corpo umano nello spazio e nel tempo, è che essa non nasconde nulla dietro di sé, e che consiste semplicemente in ciò che si vede, così come la musica in ciò che si sente. E se si ha la capacità di guardar alla complessità degli elementi che nella danza hanno luogo contemporaneamente alla musica o ad altri eventi, allora la danza stessa può presentarsi come un’esperienza, con cui si deve entrare in contatto. Attraverso di essa la nostra sensibilità può cogliere il mondo attorno a noi; ed è quanto, a mio parere, tutta l’arte contemporanea può fare”.
A ciò erano arrivati a loro modo, indipendentemente da Duchamp ritengo, Thelonious Monk e Cecil Taylor, il primo sostituendo al suono le sue danze, volutamente goffe, da orso, attorno al pianoforte, il secondo immettendo l’immagine del proscenio della danza nell’azione sulla tastiera, con l’azione corporea nell’avvicinarsi spesso furtivo al pianoforte, nel declamare le sue poesie, suonandole con la voce. Torna in evidenza il momento dell’esperienza, della propria e di quella che coinvolge il pubblico. Il bello non c’entra mai, come in Dada non è qualcosa cui miri l’artista o l’arte. Cage liquida un po’ tutti insieme i pittori della Pop Art, “poco interessanti come il Surrealismo”, anche se non è un surrealismo dell’individuo, ma della società.
Nella prima gioventù John Cage aveva apprezzato e amato particolarmente Ad Reinhardt, ma la scoperta dei monocromi, con l’effetto che gli fanno, lo obbliga a un salto: “niente soggetto, niente immagine, niente gusto, niente oggetto, niente bellezza, niente talento, niente tecnica (niente perché), niente idea, niente intenzione, niente arte, niente sentimento, niente nero, niente bianco […] Alleluuia! Il cieco può di nuovo vedere, l’acqua è limpida”. Il niente è quel che Reinhardt non coglie quando anch’egli dà corpo ai suoi monocromi, nei quali il senso è però quello di un rovesciamento del precedente espressionismo.

Preso atto del salto, quel che emerge dal silenzio è una sorta di contraddizione che Cage non ha mai apertamente affrontato. Che senso ha ricorrere all’analisi e battersi per la lettura della sua musica come fa James Pritchett, qualora si condivida il sospetto di Joseph Kosuth Che “per Cage, la musica fosse un luogo di lavoro piuttosto che qualcosa di utile all’esecuzione”?
C’è una certa vicinanza tra Kosuth e Cage, anche nella differenza dei metodi arbitrari di scelta all’interno del lavoro. Nessuno dei due pensa che l’arte consista in forme e colori/suoni. Le singole opere non sono che esempi di un processo più ampio. Bisognerebbe poter sondare il silenzio tra un’opera e l’altra, il pensiero durante le pause. Se riusciamo a cogliere il lavoro negli intervalli, cogliamo il lavoro reale. “Le singole opere – dice Kosuth – troppo facilmente diventano un luogo di interpretazione, uno specchio per le richieste di significati di altri”. Serenamente, sia Kosuth che Cage, non trovano però ostacoli in questo loro essere utili. Del resto Cage non s’è mai fatto scrupolo di tradurre l’I Ching in uno strumento che gli serviva per nuovi significati all’interno della cultura occidentale, ignorando, o fingendo d’ignorare che l’utilizzava come una metafora funzionale a una nuova cosa, la sua musica e astraendo dal senso che a esso è proprio nella sua territorialità.
“I sensi non assistiti – ha scritto Cage – ci permettono di percepire, diciamo, il cinque per cento di quello che esiste. Mediante il micro-questo, micro-quello, tele-questo, tele-quello esploriamo il resto. Ora, benché angosciati dalla povertà, abbiamo avuto un’impressione di abbondanza. Non possiamo supporre con una certa sicurezza, ora che abbiamo più di quanto possiamo utilizzare, che qualunque cosa è, in qualunque luogo, in qualunque momento, per chiunque?”.
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