di Luca Chierici
Un grande successo, senza dubbio, quello che ha accompagnato la rappresentazione del Boris Godunov di Musorgski per l’apertura della stagione scaligera, un successo le cui ragioni principali sono da ricercare nella presenza di diversi elementi, fusi attraverso un lavoro comune che non ha visto o quasi momenti di cedimento.
La presenza di un protagonista, Ildar Abdrazakov, che ha come riassunto una tradizione di presenze scaligere storiche, la regìa di Kasper Holten, le scene di Es Devlin, la lettura analitica ma anche assai partecipe di Riccardo Chailly coadiuvato dall’orchestra e dai due cori diretti da Alberto Malazzi e Bruno Casoni, ma anche e soprattutto la natura stessa dell’opera, così lontana dalle convenzioni occidentali, hanno portato alla realizzazione di una serata per molti versi indimenticabile. Capolavoro di frequente rappresentazione alla Scala, seppure in differenti versioni a partire da quella del 1908 nella revisione di Rimskij-Korsakov, il Boris era già approdato nella versione primigenia del 1869 in occasione delle recite dirette da Gergiev nel 2002 agli Arcimboldi.
Nell’Ur-Boris il messaggio drammaturgico è più netto e si risolve nell’opposizione tra lo Zar e il popolo e quindi tra l’ascesa e caduta di Boris, elementi chiave della cosiddetta ”epoca dei torbidi”
La stessa versione di base, questa volta precisata con qualche modifica attraverso una nuova edizione critica di Evgenij Levašev, ha inaugurato quest’anno la Stagione 2022-2023 in un momento che vede tra le altre cose più che mai vivo lo scottante problema che contrappone Russia e Ucraina in una guerra sanguinosa. In realtà la decisione relativa alla programmazione di questo Boris era già stata presa tre anni fa e non era assolutamente possibile prendere in considerazione un rinvio per vari motivi, non ultimo quello che riguarda il rispetto per uno dei caposaldi del teatro musicale, portatore di un messaggio complesso e oggi al di sopra delle parti.
Un primo contatto tra Ildar Abdrazakov, il basso protagonista del ruolo, e Riccardo Chailly, foriero degli sviluppi che hanno portato alla realizzazione di questo progetto era avvenuto all’epoca delle recite di Attila, quando i due protagonisti avevano lavorato ancora una volta assieme nel contesto di una lunga collaborazione precedente. Chailly, dal canto suo, era notoriamente coinvolto nel Boris anche perché era stato assistente di Abbado durante la memorabile produzione andata in scena alla Scala tra il 1979 e il 1981. Questo Ur-Boris, come viene tecnicamente appellato dagli addetti ai lavori, mai eseguito durante la vita di Musorgskij, si caratterizza per un uso molto crudo, scabroso, delle armonie, dei colori orchestrali e vocali, un impianto che ben si presta a sottolineare i lati più accesi di un titolo nel quale i motivi dell’eccesso di potere, di un cinismo che tutto travolge, si fanno elementi di una terribile contemporaneità con gli attuali avvenimenti storico-politici. Nell’Ur-Boris il messaggio drammaturgico è più netto e si risolve nell’opposizione tra lo Zar e il popolo e quindi tra l’ascesa e caduta di Boris, elementi chiave della cosiddetta ”epoca dei torbidi”. E questa è stata l’idea che ha sostenuto fin dall’inizio il contributo registico di Kasper Holten, autore di una impressionante realizzazione ottenuta con una relativa semplicità di mezzi. Holten aveva dichiarato di voler cercare di far capire al pubblico le origini della pazzia di Boris, non solamente di far sì che lo spettatore contempli la rovina fisica e psichica del personaggio. La figura dello spettro insanguinato dello Zarevič Dmitri diventa secondo il regista “la materializzazione onnipresente del suo senso di colpa” ma l’onnipresenza del “vero Dimitrij” nei suoi abiti insanguinati è stata forse l’unica pecca di una impostazione registica vincente: come spesso avviene in altri contesti teatrali, un’idea legata alla presenza in scena di un personaggio chiave ma non compreso tra i ruoli veri e propri va amministrata con una certa parsimonia, anche perché l’ossessione di Boris nei confronti dello spettro è comunque palpabile in ogni istante e non necessita una continuità scenica che alla fine diventa persino ingombrante.
Molti altri elementi si sono affacciati in questo Boris, e tra questi il legame tra Puškin e Shakespeare, ambedue capaci di una analisi profonda, drammatica degli intrighi di potere e della loro azione stravolgente sulla mentalità di personaggi come Riccardo III o Macbeth. In particolare la follia di Boris ricorda nei modi quella di Macbeth, e un altro tema chiave di questa rilettura è quello della manipolazione dell’opinione pubblica, nel momento in cui il personaggio di Pimen riporta da coscienzioso cronachista il senso della realtà dei fatti. A questo proposito le imponenti Scene di Es Devlin si giocano sulla presenza di una lunga pergamena che rappresenta il fiume della storia come redatto da Pimen, una pergamena che verrà rubata dal falso Dmitri e portata al di là del confine lituano, elemento necessario per organizzare la rivolta atta a spodestare Boris l’usurpatore. E il secondo elemento scenico, ancora più presente, è l’enorme carta geografica che illustra sia la grandiosa frammentarietà dell’Impero russo che i dettagli dello spostamento della vicenda tra Mosca e la Lituania. È una carta appunto frammentata (a sinistra si coglie chiaramente la presenza dell’Ucraina !) quasi a descrivere la impossibilità, da parte del Potere, di governare un territorio così vasto. Un tema che viene ripreso in forma ridotta nella scena della dimora di Boris al Cremlino, quando i figli dell’Imperatore contemplano un luminoso mappamondo (errore blu, a quell’epoca l’Australia non era ancora stata scoperta!).
Un secondo elemento registico che non ha convinto la maggior parte degli spettatori è stato quello dell’uccisione finale di Boris da parte di Grigorij, atto che forse si sarebbe potuto evitare se non diretto per forza di cose a voler stupire il pubblico con un colpo di scena inaspettato. Ma in generale l’idea di Holten è stata ben apprezzata e ha portato alla realizzazione di uno spettacolo davvero emozionante. I costumi, realizzati con magnificenza da Ida Marie Ellekilde, attingevano a diverse epoche, da quella originaria di Boris a quella di Pushkin e poi di Musorgskij, a sottolineare la continuità storica degli eventi.
Riccardo Chailly si è immerso nella partitura con un visibile coinvolgimento personale che è andato comunque al di là della pure insostituibile esperienza vissuta ai tempi di Abbado, riuscendo a imporsi in un difficilissimo controllo di innumerevoli elementi che contribuiscono alla realizzazione di una partitura complessa e, come si diceva, così lontana dalle convenzioni del teatro in musica ottocentesco. La chiave di lettura del Boris sembra essere insita nelle poche battute introduttive di oboi e fagotti e nella lancinante, ma anche consolatoria figurazione melodica che accompagna la morte del protagonista . E di questi elementi il nostro direttore ha colto l’importanza assoluta, l’alfa e l’omega di un capolavoro che si colloca tra le cose più emozionanti del teatro lirico. Accanto a lui, di fondamentale importanza era la presenza dei cori che davvero rappresentano l’anima del popolo russo, allo stesso tempo protagonista della Storia anche se spesso elemento passivo, come travolto dai disegni di un potere estraneo.
Tra i protagonisti del cast, elemento primario e assoluto è stato ovviamente Ildar Abdrazakov, il basso che meglio oggi poteva affrontare il ruolo principale, per sua diretta convinzione un ruolo di animo, fuoco, canto, con una particolare attenzione proprio al valore della parola recitata. Le emozioni che questo personaggio ha offerto al pubblico in sala non sono nemmeno riassumibili con le parole e davvero questo straordinario cantante e attore ha illuminato la figura di Boris in tutte le sue sfaccettature lungo il complesso sviluppo del capolavoro musorgskiano. Accanto a lui si sono ammirati il Pimen di Ain Anger, soprattutto nella lunga e difficile parate narrativa dell’atto primo, il Grigorij di Dmitry Golovnin, che sottolinea con abilità l’evolversi del proprio carattere, da modesto monaco a feroce pretendente al trono, il Fëdor e la Ksenia di Lilly Jorstad e Anna Denisova, il Varlaam di Stanislav Trofimov e il suo compare Misail (Alexander Kravets), l’Innocente di Yaroslav Abaimov e, sul versante dei Boiari, il Šujski di Norbert Ernst (personaggio di veramente difficile caratterizzazione) e lo Ščelkalov di Alexey Markov. Impeccabile l’Ostessa di Maria Barakova.