di Francesco Lora
L’appassionato d’arte vetraria sa quant’è difficile dare un’idea fotografica di quegli oggetti: divengono una cosa differente a ogni mutare della luce. L’appassionato di tè sa che le stesse foglie daranno un aroma differente a seconda di quantità, temperatura e ossigenazione dell’acqua.
Chi scrive, appassionato di vetri e di tè, considera alla medesima stregua quel capolavoro operistico ineffabile che è Dialogues des Carmélites di Francis Poulenc. Anche senza tirare in ballo il sublime libretto-sceneggiatura di Georges Bernanos, che è a sua volta un trattato di drammaturgia, psicologia e teologia, basta la partitura a valere, come la Commedia di Dante, innumerevoli piani di lettura. Ciò avviene nella musica anche a monte delle parole: quando l’opera fu rappresentata per la prima volta, al Teatro alla Scala, nel 1957, per dire, il direttore Nino Sanzogno ne cavò la natura tardo-verista, sanguigna, realistica, ma nell’ultima tra le incisioni in studio, diretta da Kent Nagano, le stesse note danno luogo a un impalpabile misticismo à la Olivier Messiaen. Non è che un esempio: succede così con i testi traboccanti di linee preziose, entro le quali l’interprete deve prendere posizione. Riccardo Muti, alla Scala nel 2000 e 2004, aveva dunque optato per la più riuscita tra le esecuzioni della buona tradizione: passo grave, poderoso e pieno, ed espressione netta e severa, con le file degli strumenti mirate verso un comune punto di fusione timbrica. La premessa, lunghetta, serve per contestualizzare la lettura, rivelatoria, data da Michele Mariotti nella sua prima inaugurazione di stagione, come direttore musicale, in cinque recite al Teatro dell’Opera di Roma dal 27 novembre al 6 dicembre. Il punto è che tale lettura, più che assumere una singola posizione rispetto al testo, le attiva e concilia tutte, con geniale prontezza teatrale e sveglia intuizione musicale: alle prese con un Poulenc eclettico e camaleontico come non mai, Mariotti evita di far convergere ogni pagina verso un’idea centrale, bensì, spiazzando ogni altro che lo abbia preceduto, prende il carattere di ogni pagina per ciò che docilmente o bruscamente è, fino a far esplodere la partitura nei suoi disinvolti riferimenti dalla monodia gregoriana a Wagner, Verdi, Musorgskij, Chabrier, Massenet, Fauré, Debussy, Satie, Prokof’ev. Ogni più minuto segmento riceve il proprio tempo e i propri colori – in modo instancabile, moderno, si vorrebbe dire cinematografico – con le relative increspature e ombreggiature, rifuggendo di sofisticare la fonica naturale degli strumenti, il pieno morso di armonie aspre o la sillaba portata nel canto sulla nota. Il risultato è come se si scoprissero la terza e la quarta dimensione dell’icona bizantina; se ne esce illuminati, anzi abbagliati: la «Salve Regina» finale è affresco rutilante, colossale; anche intimoriti; di certo smorzati nella convinzione di aver già conosciuto bene, prima delle recite romane, la partitura e i significati di Dialogues des Carmélites.
A sortire spennacchiato nel paragone è piuttosto il nuovo allestimento con regìa di Emma Dante, scene di Carmine Maringola e costumi di Vanessa Sannino. Tale lettura teatrale ha un pregio: evita beninteso l’assetto tradizionale dell’elegante spettacolo con regìa di Alberto Fassini e scene e costumi di Pasquale Grossi, concepito nel 1991 proprio per l’Opera di Roma e da lì ripreso al Filarmonico di Verona e al Massimo di Catania fino al 2003; nel contempo, però, sa smarcarsi dal modello di Robert Carsen, massimo regista d’opera che ha forse dato il capolavoro massimo nei Dialogues des Carmélites volati da Amsterdam alla Scala, e che da lì in avanti ha ridotto diversi colleghi a modesti imitatori, com’è capitato persino a Olivier Py nella sua lettura per Parigi e Bruxelles. Il problema è che la lettura della Dante risulta l’inverso, nel metodo e nell’esito, di quella paradigmatica di Carsen. Quest’ultimo agiva per estrema sottrazione, lavorando soltanto dentro il testo, togliendo ogni orpello all’occhio, dannando la mente a immagini eterne. La Dante sovrappone invece a un testo teatrale già densissimo, a un testo musicale in parte vincolante e al senso storico ed etico del dramma una moltitudine di immagini – vero e proprio horror vacui – che distrae dall’asse centrale del discorso e ne indebolisce la pregnanza intrinseca. Urge un esempio. L’azione verte su una comunità di monache mandate alla ghigliottina per non aver voluto rinunciare alla loro libera vocazione e assoggettarsi alla dottrina rivoluzionaria francese: è un soggetto storico, dentro la storia, concreto, che ammonisce con vigore la contemporaneità; nell’allestimento romano si vedono invece delle astratte amazzoni della fede, vestite con corazza ed elmo alla maniera di valchirie, miticamente traslate fuori dalla tangibilità storica e dunque rese meno donne. Intorno non mancano espliciti riferimenti spazio-temporali, ma paradossali, fuorvianti e in odore di gratuità iconografica: vale per tutti il tetro ossario guarnito con cinquecento teschi, riconducibile al clima controriformistico e barocco del Seicento e del Meridione d’Italia, ma null’affatto alla lungimirante dialettica di suore francesi dell’Età dei Lumi. E così via.
Se l’orchestra manda memorabili scintille sotto la bacchetta di Mariotti, anche la compagnia di canto illustra la meticolosità del lavoro svolto. Incuriosisce, però, la disomogeneità dell’assortimento: la folta locandina annovera artisti tra loro assai differenti per lingua madre, pratica del francese, doti naturali e tecniche, specializzazione di repertorio e disinvoltura scenica. Essi se la cavano tanto meglio quanto più li si consideri singolarmente, e il loro collaborare sembra una simpatica parata di disparità. Si ha così il lussuoso Marquis de la Force di Jean-François Lapointe, l’educata Blanche di Corinne Winters, il diafano Chevalier di Bogdan Volkov, la fresca Sœur Constance di Emőke Baráth e la risonante Mère Marie di Ekaterina Gubanova. A far passare la voce con miglior proiezione nella difficile acustica del Teatro Costanzi, in modo sorprendente o forse no, è però l’Aumônier di Krystian Adam, tenore di grazia di norma impiegato tra Monteverdi e il primo Mozart. Una gaffe di casting potrebbe essere quella di Ewa Vesin, il pur valoroso soprano che tuttavia intona con acuti di vetro e scarso legato la più melodiosa tra tutte le parti dell’opera, ossia la Madame Lidoine pensata per Renata Tebaldi, creata da Leyla Gencer, canonizzata da Régine Crespin e poi passata da Joan Sutherland a Leontyne Price e Jessye Norman: fosse stato calato anche a Roma un asso degno di tanta provvidenza divina, il musicologo incattivito da un’adolescenza loggionistica non starebbe a cavillare. La divina provvidenza si manifesta invece al completo nel debutto di Anna Caterina Antonacci, la benedetta tra le artiste, quale Madame de Croissy, la parte delle carismatiche. Nel meditare su cosa renda immane l’Antonacci, sarà sempre insufficiente tirare in ballo il peculiare calore timbrico o la prestanza attoriale stessa. Il punto della questione è che nessuna cantante d’opera oggi alle scene, più dell’Antonacci, attiva con simultanea ovvietà un più ampio spettro di registri artistici: nel suo lavoro si colgono tutte insieme, e sempre, la musicista che studia e capisce, l’attrice mai adagiata su di sé, la persona che scandaglia la narrativa, che divora i film, che visita le mostre, che segue il teatro di parola, che assorbe intero il mondo reale e ideale, per trasfigurarlo scientificamente ed esteticamente sulla scena. Ne deriva una Croissy mai stata così generale in ciò che vi si vuole ritrovare, e mai stata così particolare in ciò che non ci si sarebbe figurato di trovarvi: una madre superiora sui sessant’anni, inferma ma con ancora dentro di sé il fuoco passionale della giovinezza, con un porgere di frase tagliente e imperioso ma nello stessissimo tempo angustiato, amorevole, struggente. Per metterla a punto alla propria maniera, l’Antonacci s’inventa addirittura, dietro la voce cantata dell’interprete, la voce parlata del personaggio, con i tic fonetici del bassin parisien. Non bastava l’aver tolto il respiro al teatro col solo muto, zoppicante entrare in scena, già così aprendo un nuovo orizzonte alla lettura di Mariotti. Da qui in poi, il critico si ferma.