di Attilio Piovano
Significativo e ragguardevole successo di pubblico, al Teatro Regio di Torino, la sera di sabato 13 maggio 2023, per la première della donizettiana opéra comique La fille du régiment che il bergamasco compose in soli quindici giorni e che non appariva sulle scene del capoluogo subalpino da ventinove anni (ovviamente presentata in francese, dunque con i dialoghi ‘parlati’ e sottotitoli, edizione critica a cura di Claudio Toscani, Ricordi e Fondazione Teatro Donizetti di Bergamo).
In primis, successo personale per il tenore statunitense John Osborn, gran mattatore, sempre in ottima forma: nei panni di Tonio, giovane tirolese innamorato e ‘costretto’ ad arruolarsi ‘per amore’ (un po’ come il timido Nemorino dell’Elisir), ha sciorinato i famigerati nove do di petto entro la sua celeberrima ‘cabaletta’ «Pour mon âme» con tale naturalezza, aitante souplesse e sicurezza assoluta da indurre il direttore Evelino Pidò a concedergli l’immediato bis, dinanzi alla plateale, entusiasta e più che giustificata reazione del pubblico, ammirato per cotanta bravura al cospetto di uno dei passi più pirotecnici dell’intera storia del melodramma. Ed Osborn non si è certo tirato indietro, concedendosi persino il lusso di una piccola, elegante variante, inanellando un ‘gruppetto’, insomma una deliziosa ornamentazione sulla nota sovracuta, mostrando di saper ‘salire’ financo al re, poi, comprensibilmente, optando per un portamento e una più rapida ‘chiusura’. E non è da tutti, coniugare eleganza, sicurezza di emissione e capacità di coinvolgimento emotivo di tal fatta.
Non certo da meno, nel ruolo di Marie, la giovane, ingenua e sempliciotta vivandiera di un reggimento napoleonico, simbolica mascotte dei soldati – è cresciuta infatti tra rudi militari dal cuore peraltro tenero e paterno, in un clima di esibita naïveté – l’ottima Giuliana Gianfaldoni (già più volte ammirata al Regio, ad esempio in Liù nella pucciniana Turandot lo scorso anno) che ha affrontato con grande bravura le parti impervie del suo personaggio, i momenti per così dire più farseschi, come l’iniziale e marziale «Au bruit de la guerre» che poi evolve in duetto con Sulpice (e più d’uno ha notato come Verdi vi abbia verosimilmente preso spunto per la sua Preziosilla nella Forza) e così pure nella brillante e frivola canzone del reggimento «Chacun le sait, chacun le dit»; più ancora apprezzate le sue due arie patetiche, o per meglio dire larmoyantes, specie «Il faut partir», con quel suo andamento da siciliana lenta e la melanconia bucolica del corno inglese obbligato, sorta di contraltare femminile della «Furtiva lagrima» in Elisir, tutta suoni filati, delicatezze e mezze tinte, affrontata con grande raffinatezza (così anche quella del second’atto «Par le range et par l’opulence» dove al corno inglese si sostituisce il timbro caldo e vibrante di un violoncello e pare schizzata fuori da una partitura dal nitore belliniano).
Ha poi superato se stessa quando, ormai sottratta all’ambiente militaresco dalla presunta ‘zia’ (che in realtà si rivelerà essere sua madre secondo il vecchio meccanismo già della commedia dell’arte della cosiddetta agnitio) e trasferitasi al castello di Berkenfield per ricevervi un’educazione ‘conveniente’ e imparare le buone maniere, affronta la lezione di canto (come non ripensare al rossiniano specimen del Barbiere), ovvero un’intenzionalmente melensa e arcaicizzante Aria degli amori di Cipride («Le jour nassait dans le bocage»): pagina che con le sue previste stonature volte a mimare la goffaggine dell’irriducibile fille, richiede grande arguzia e non comuni doti vocali per essere restituita al meglio. Ed è quanto ha fatto la Gianfaldoni, senza eccedere in smargiassate, ma con impareggiabile humour e gran destrezza nel passare dalla parte per così dire parodistica a quella ‘reale’, due piani drammaturgici che si vanno intrecciando, ovvero dalle deformazioni comiche del dettato testuale di un’aria pseudo antica, all’accalorata e partecipe conversazione (resa beninteso musicalmente) di Marie con il buon sergente Sulpice che le vuole bene come un padre e, visibilmente, parteggia per lei.
Un plauso speciale all’esperto Roberto De Candia (navigato e super affidabile baritono) per aver disimpegnato con misura ed equilibrio (sul piano vocale) il ruolo per l’appunto del buon sergente. Peccato – spiace dirlo, ma occorre segnalarlo – per una dizione non proprio da manuale ed anche una certa eccessiva simplicitas (sia concesso) sul piano attoriale. Molto bene, invece, innanzitutto per quanto attiene al côté della recitazione (dizione e presenza scenica) da parte del ‘mezzo’ Manuela Custer che ha saputo sbozzare una Marchesa di Berkenfield a tutto tondo, in bilico tra perbenismo e tenerezza, a partire dall’aria iniziale «Pour une femme de mon nom»; magistrale, poi, la scena madre durante la quale apre il cuore al buon sergente, confessando… l’inconfessabile, ovvero il suo trascorso amore per il fascinoso capitano Robert, poi morto in battaglia, dalla cui unione nacque Marie, prodromo della catarsi conclusiva, o più propriamente dello scontato lieto fine come in Elisir e Don Pasquale dove a trionfare è l’amore dei giovani protagonisti. E così pure, quanto alla Custer, ammirevole la sua vocalità, duttile, partecipe e sempre all’altezza dei vari momenti drammaturgicamente e musicalmente dissimili. Una vera lezione di stile, la sua, e la gioia di ritrovarla interprete di gran classe al Regio.
Circa i restanti protagonisti occorre registrare le buone prove fornite dal basso Guillaume André, intendente untuoso e servile come giusto, bravo sia vocalmente sia sul piano della recitazione, bene poi anche nei loro rispettivi ruoli il basso Lorenzo Battagion (un caporale davvero credibile e godibile) ed il contadino cui ha dato egregiamente voce e corpo il tenore Alejandro Escobar.
Da ultimo citiamo l’attore Federico Vazzola (il notaio), ma soprattutto – gran mattatore com’era prevedibile – il poliedrico Arturo Brachetti nel ruolo comico ed esilarante della Duchessa di Crakentorp che l’attore e trasformista ha reso da par suo, sfoggiando una tripletta dei suoi leggendari e fulminei cambi d’abito, un semplice ombrello ed una tenda, e un paio di secondi al massimo per vederlo/a trasformato/a. Pubblico, ovviamente in visibilio. Forse – al di là di ogni aborrito bigottismo – si sarebbe potuta evitare la battuta estemporanea «Ed ora che facciamo? Recitiamo un rosario?» per alludere al momento di impasse: proporre di giocare a briscola o prendere un tè coi pasticcini sarebbe stata la stessa cosa. Ma tant’è. Arguto il suo spassoso dialogo con Pidò che, è il caso di dirlo, molto volentieri e sportivamente è stato alla ‘battuta’ e godibile la sua esecuzione di una nota e nostalgica canzone Anni Trenta.
Dal podio l’esperto Pidò – che mancava al Regio dalla Medea del 2008, ritornato per l’occasione nella sua città da cui prese le mosse una sfolgorante carriera internazionale – ha governato con garbo e misurato equilibrio: evitando di calcare troppo, a partire dall’iniziale Sinfonia, su marce e spunti militareschi, mano leggera nei celeberrimi Rataplan che facilmente possono cadere nel corrivo, nel contempo sicurezza assoluta, eleganza, bei fraseggi, giusto spazio alle voci, come sempre assecondato dall’Orchestra del Regio in ottima forma in tutte le sue sezioni. Idem dicasi del coro, ottimamente istruito da Andrea Secchi (e pazienza per qualche passo dalla dizione non proprio perfetta, con qualche inflessione per così dire montagnarde, ma si tratta pur sempre di militari, e poi siamo in Tirolo).
Pochi invero i momenti di ristagno, specie nei passi recitati dove peraltro la ripresa da parte di Florence Bas della regia di Barbe & Doucet ha funzionato bene. Qualche caduta di gusto: far mimare un rutto, absit iniuria verbis, a Marie per evidenziarne l’educazione ‘da caserma’ è parso esornativo, e così pure alcune gags disseminate qua e là con un gusto un po’ retrò da avanspettacolo, ma in complesso il tutto è filato via liscio garantendo il divertissement.
E siamo da ultimo al versante visivo di questa pur scorrevole Fille (coproduzione di Regio e Fenice). Perplessità sull’idea di fondo che ha poi informato l’intero impianto scenografico e registico a cura della premiata e testé citata ‘ditta’ canadese Barbe & Doucet: far precedere l’opera da un filmato che scorre (durante la Sinfonia, attenuandone in parte la godibilità e dispiace) volto a mostrare nostalgiche e struggenti immagini video – peraltro ottimamente realizzate in bianco e nero da Guido Salsilli – immagini intese a rivelare la guerra rivissuta nel ricordo di una signora novantanovenne (vero ‘doppio’ della giovane Marie). Ospitata in una casa di riposo decorosa e passabilmente accogliente, riceve la visita di figli e nipoti. Ne emergono spezzoni di ricordi bellici, alternati ad immagini pur sorridenti della donna anziana, un tempo infermiera sui campi di battaglia della Seconda Guerra Mondiale.
Bon, ci può stare, anche se ha finito per immergere subito l’opera in un clima di mestizia nostalgica che di fatto non le è proprio, o quantomeno costituisce solamente un tratto e pure minimal, del plot. All’apertura del sipario ecco in dimensioni abnormi elementi di quel filmato, ovvero gli arredi del cassettone, e allora un’enorme penna da scrivania, un orologio a cucù da cui usciranno poi tante ragazzotte tirolesi che si muovono meccanicamente come altrettante Olympia nei Contes d’Hoffmann, e ancora libri, un centrino, una lampada da tavola, un’enorme e oleografica statua della Vergine, e poi scatole di medicinali dai nomi intenzionalmente contraffatti per evitare problemi di diritti commerciali (Feralgan e Valerenne, memori forse delle scatole di latta dell’indimenticabile Agnese di Paër ammirata al Regio con la regia di Leo Muscato), un’aut, a bordo della quale giunge la Marchesa (ed era nel videpo un modellino), un sidecar su cui giunge Marie, un ritratto. Il tutto appariva un po’ la quintessenza del Kitsch. E bon, per la seconda volta. Non basta, nel second’atto ecco un abnorme busto di Donizetti, una medaglia, una collana di perle, la scatola dei gioielli che funge da carillon, mazzi di carte ed un orologio da taschino al cui interno è effigiata una miniatura del bel tenebroso capitano Robert. Lo spettatore, preso dai colori rutilanti e dal vortice simil disneyano del tutto dimentica ben presto il filmato, trovandosi proiettato in un’ambientazione che pure qua e là satura un poco rischiando pericolosamente di approssimarsi allo stucchevole.
Ciò che davvero è parso poco consono (e anche un filino irritante, diciamolo) è stato vedere la pantomima di una casa di riposo per anziani, con tanto di nonnine e nonnini rincorsi da solerti e bellocce infermiere: con tripodi, carrozzine e scialletti, e perfino un accenno alla ginnastica dolce che tanto farebbe bene in ambito geriatrico (ma è una moda). Francamente è sembrato un poco irrispettoso, ma soprattutto ci si domandava, cui prodest? A che giova? Non ha aggiunto nulla allo spettacolo e così pure aver ripreso un frammento del film, mostrando l’anziana infermiera che chiude gli occhi per l’ultima volta, ha lasciato l’amaro in bocca. Ancorché la vita siacosì fatta di alti e bassi, amori ed entusiasmi, poi il declino inesorabile. Ma aver tanto insistito sulla Guerra ha finito per falsare la Stimmung della Fille, dove soldati e battaglie sono un semplice pretesto per la naïveté di un’innocente storia d’amore. Funzionali e corrette le luci di Guy Simard. Otto complessivamente le recite.