di Luca Chierici
Un titolo molto noto nell’economia dell’opera lirica postromantica mai rappresentato alla Scala? Si tratta di Rusalka, opera in tre atti di Dvořák eseguita per la prima volta a Praga nl 1901. Frutto quindi dell’ultima stagione creativa del musicista boemo, Rusalka fa riferimento a un tema narrativo molto caro alla drammaturgia romantica, che offrì diversi spunti a composizioni musicali più o meno note nel corso del secolo diciannovesimo.
Rusalka è una ninfa delle acque che vive un amore impossibile con un Principe, chiede aiuto alla strega Ježibaba allo scopo di varcare la soglia dell’umano – pena la perdita della propria voce – vive una brevissima stagione d’amore per essere a breve tradita dal Principe stesso a causa di una rivale. La fiaba si consuma in tragedia nel momento in cui il Principe viene punito del suo tradimento da Rusalka, che ne causa la morte ma attraverso un bacio diciamo così “liberatorio”. Un argomento fiabesco molto caro al musicista che si serve qui del libretto di un giovane poeta cèco, Jaroslav Kvapil. Letta all’inizio tenendo ben presente la tradizione romantica della Undine di Friedrich de la Motte Fouqué e della Sirenetta di Hans Christian Andersen, la vicenda può essere oggi facilmente descritta in termini psicanalitici, come esempio di incomunicabilità tra il mondo della natura e quello umano, e le stesse sfaccettature delle passioni che intercorrono tra i protagonisti si prestano a nuove chiavi di lettura. Questa commistione di elementi, che può richiedere diversi gradi di interpretazione, e il fatto che l’opera sia uscita dalla penna del suo compositore già nel ventesimo secolo hanno causato una scarsa frequenza di Rusalka sui palcoscenici occidentali.
È riuscita Emma Dante, ritornata alla Scala dopo quattordici anni, a tradurre efficacemente questo soggetto in uno spettacolo congruente e convincente? Diciamo che lo scopo è stato raggiunto in gran parte, non interamente, anche a causa di una certa dicotomia tra ciò che si era pensato e ciò che effettivamente si vedeva in teatro. Per prima cosa la onnipresente “piscina” colma d’acqua che rappresentava il lago d’origine delle ninfe, struttura orizzontale che era praticamente invisibile dalla platea (se ne potevano indovinare i contorni dagli spruzzi d’acqua che ogni tanto i bagnanti causavano con i loro movimenti). Sarà la ripresa televisiva prossima ventura a chiarire i dettagli di questa idea, tramite opportune riprese dall’alto. Ma la vicenda è comunque molto difficile da porre in scena, e i balletti (le coreografie erano di Sandro Maria Campagna) e i movimenti delle comparse hanno più di una volta sopperito a una mancanza di idee che rischiava di creare dei vuoti di scena imbarazzanti. Rusalka, che entra in scena su una elegante carrozzina, invalida nel senso di sentirsi inadeguata al proprio mondo, subisce una trasformazione da creatura acquatica, con tanto di tentacoli (altro che sirena, piuttosto medusa) a donna in carne e ossa, per poi ritornare, mutilata, allo stato acquatico. Ma secondo la Dante Rusalka non è solo vittima del proprio amore e della propria infelicità come essere acquatico perché, diventata donna, assume sia i pregi che i difetti dell’essere umano, vive fino in fondo il proprio riscatto di amante tradita e accetta il proprio ridimensionamento acquatico a patto di punire l’amato con la morte.
Un simile impianto sentiva la necessità di una scenografia adeguata (Carmine Maringola) e di costumi (Vanessa Sannino) che non indugiano per forza sulle componenti fiabesche. Essenziali sono state anche le luci, a cura di Cristian Zucaro. Il primo e il terzo atto si svolgono all’interno di una chiesa gotica diroccata, il secondo nel palazzo del Principe, con un preludio ambientato in una foresta magnificamente rappresentata e animata da cespugli viventi.
Dal punto di vista strettamente musicale, Il flusso melodico è continuo e solo raramente si esplicita in vere e proprie arie chiuse, così come non lontana è la parentela con i riferimenti wagneriani del leitmotiv e ciakovskiani nella Polonaise. Ne esce un flusso quasi ininterrotto di musica che davvero incanta l’ascoltatore, conscio di trovarsi di fronte a un compositore che domina da par suo il linguaggio sinfonico, corroborato da un forte richiamo folcloristico e da una sapiente architettura già lodata da Brahms. C’è forse un eccesso di stato melodico nell’opera, e un continuo cangiare tra accordi minori, maggiori, di settima diminuita che a un certo punto portano a sazietà l’orecchio abituato allo stile classico. Ma l’effetto complessivo non è di quelli che lasciano indifferente l’ascoltatore, e a suo modo coinvolge gli astanti in una esperienza globalmente positiva. A guidare l’Orchestra della Scala è stato il bravissimo Tomáš Hanus, allievo cèco di Bĕlohlávek e direttore musicale della Welsh National Opera che proprio con Rusalka ha debuttato alla Wiener Staatsoper nel 2017.
Segnalata anche grazie a un’unica vera e propria aria in senso tradizionale, la protagonista Olga Bezsmertna si è fatta all’inizio valere con il proprio inno (“Piccola luna, così alta nel cielo !”) spesso ripreso nel contesto dei recital vocali ma ha splendidamente portato avanti il proprio ruolo difficilissimo e lungo con coraggio e determinazione, sostenuta da doti vocali già note agli intenditori. A lei sono stati riservati gli applausi più intensi e convinti al termine dello spettacolo. Parimenti applaudito il tenore Dmitry Korchak nel ruolo del Principe, impegnato soprattutto nell’atto terzo in continue escursioni vocali nelle regioni gravi e acute. Il padre di Rusalka, nonché grande spirito delle acque era Jongmin Park, impegnato nel difficile ruolo di inflessibile governatore del mondo sotterraneo e allo stesso tempo tenero genitore di una figlia sventurata. Applaudita anche la strega Ježibaba, Okka von der Damerau, anch’essa divisa tra la partecipazione alla tragedia di Rusalka e il ruolo di garante dei sortilegi occulti. Più che adeguato il Coro, diretto al solito da Alberto Malazzi.
Lo spettacolo ha ricevuto il plauso completo del pubblico per quanto riguardava tutte le sue componenti, cosa che accade anche e soprattutto qualora si tratti di un lavoro poco noto, che incute un certo timore tra gli astanti.