Marcello Filotei gode di sbalzi d’umore. Sfruttando i momenti di ottimismo si è diplomato in pianoforte, composizione e musica elettronica al Conservatorio Santa Cecilia di Roma. Nel resto del tempo ha messo in musica quello che non riesce a esprimere altrimenti.
In attesa che un archeologo musicale del XXIII secolo ne riconosca il fondamentale ruolo giocato nella cultura del suo tempo, il Nostro vede le sue opere eseguite in festival europei, riceve commissioni da istituzioni e gruppi attivi nella musica contemporanea (Biennale Musica di Venezia, Accademia Filarmonica Romana, Istituzione Universitaria dei Concerti, Teatro La Fenice di Venezia, Cantiere internazionale d’arte di Montepulciano, Orchestra della Toscana, Orchestra Haydn di Trento e Bolzano, Sagra Musicale Umbra, Ensemble orchestral contemporain, Ars Ludi ensemble, Tiroler Festspiele Erl, festival PlayIt, festival Evenings of actual music in Yekaterinburg, Milano Musica, Festival Puccini Torre del Lago, Cantus Ansambl ecc.). È stato citato da dj Spinetta su Radio Coatta Classica e grazie alla Rai pubblica le sue partiture. Nel frattempo continua a scrivere alla ricerca di un linguaggio che contemperi la necessità di superare gli stereotipi del passato con l’esigenza di proporre all’ascoltatore un messaggio sonoro comprensibile. Non rinuncia però a esercitare il suo inconfessabile sadismo come critico musicale. Vecchio dalla nascita è attualmente un uomo di mezza età che garantisce la sua presenza al mondo dal 1966.
Vorrei iniziare dalla sua vita. Quali sono state le circostanze in cui ha deciso di intraprendere la strada della musica e della composizione?
«Ho iniziato in maniera assolutamente casuale, ascoltando mio zio che in casa suonava la chitarra e scriveva canzoni degli anni Settanta da cantautore. Ascoltavo mentre le componeva, potevo avere quattro o cinque anni, e il giorno dopo le ripetevo a memoria. Un’altra cosa che facevo da piccolo, avendo origini marchigiane, era quella di fingere di dirigere una banda. Questo è stato il motivo per cui sono stato mandato a studiare il pianoforte, come facevano una volta le signorine di buona famiglia. Quando mi sono diplomato, il mio insegnante di solfeggio mi ha invitato a pranzo per dirmi che non avevo il talento per una carriera da solista, ma che se volevo diventare un musicista, dovevo studiare composizione. Ho ricominciato completamente da capo e, infatti, mi sono diplomato piuttosto tardi. La mia passione per la composizione è esplosa. Ho iniziato a comporre ancora da studente e sono stato molto fortunato, perché le mie opere venivano eseguite anche prima di essermi diplomato».
Quali sono state le sue ispirazioni? Una particolare composizione, un autore o un maestro che hanno influito particolarmente nella sua vita professionale?
«Ho avuto diversi insegnamenti tecnici, ma nessuna vera ispirazione per la composizione. Non c’è stato nessuno che mi abbia veramente impressionato, che io abbia seguito o possa riconoscere come maestro. Ho avuto, tuttavia, moltissimi amori, soprattutto tra i compositori italiani di un certo periodo. Mi sono innamorato a turno di Luciano Berio e di Bruno Maderna, ma ho anche avuto alcuni dissapori intellettuali con i compositori che ho incontrato poi nella mia carriera di giornalista. Prima di arrivare a scegliere una strada, che tra l’altro in via definitiva non si sceglie mai, ho avuto un percorso complesso, passando anche attraverso una infatuazione per Anton Webern. Chi mi ha impressionato e credo mi abbia anche influenzato è Maderna, che a mio giudizio è tra i pochissimi ad essere riuscito a mettere assieme tecnica impressionante, fantasia e una intenzione di comunicare eccezionali, come nessuno dei suoi contemporanei. Secondo me, lui è un compositore da cui si può ripartire sempre».
Ha nominato la carriera di giornalista. Oltre ad essere un compositore lei si occupa anche di critica musicale. Come fa un compositore a valutare altri colleghi?
«Ho la fortuna di lavorare per testate internazionali come l’Osservatore Romano e la Radio Vaticana. Lo faccio con grande curiosità e mai con l’intenzione di giudicare, ma con quella di descrivere quello che riesco a capire dei brani dei colleghi. Questo aspetto mi interessa moltissimo. Una volta ascolto qualunque cosa, dal pop a ogni altro genere musicale, due volte ascolto pochissime cose. Quindi ho ascoltato tantissima musica in generale, come tutti i compositori, e tantissima musica contemporanea, come non tutti i compositori, devo dire, perché non incontro tanti colleghi in platea. Il lavoro del critico è una risorsa eccezionale: sentire quello che sta avvenendo, avere una visione allargata del mondo della composizione dagli autori statunitensi a quelli marocchini, dalla Biennale di Zagabria a quella di Venezia».
Quindi il suo è un approccio divulgativo?
«Sì, divulgativo e descrittivo, ma anche tecnico: ho l’opportunità di leggere tantissime partiture. Credo che mi influenzino ed evitino anche la radicalizzazione del mio stesso linguaggio».
Qual è stato, invece, il suo percorso stilistico? Lo considera lineare?
«Avendo la fortuna di ascoltare moltissimi concerti, mi sono reso conto che il mio percorso è abbastanza usuale: semplificare gradualmente il linguaggio cercando di raggiungere un’essenza, un modo di comunicare comprensibile, usando il meno possibile. Da giovane uno tende a usare tutto quello che sa per dimostrare che lo sa, poi pian piano si accorge che non è importante far vedere a tutti quanto sei bravo, ma è importante che tu riesca a dire qualcosa. E allora, il problema diventa molto più serio, perché da una parte bisogna avere una visione del mondo e non partire esclusivamente da questioni tecniche, che è molto più facile, e una volta che si riesce a dire qualcosa, bisogna renderlo comprensibile a diversi livelli: emotivo, strutturale e anche tecnico, di modo che chi non è musicista lo capisca e chi lo è possa darci una lettura di maggiore profondità. Tutto questo senza dover necessariamente complicare le cose. Guardando quello che ho scritto negli ultimi venticinque anni, noto un processo di semplificazione tecnica e di aumento della complessità espressiva. Il tentativo è quello di esprimere di più con mezzi più ridotti».
Il pubblico nel suo caso ha quindi un ruolo importante?
«Assolutamente. Scrivere contro il pubblico e suonare contro il pubblico, come fanno alcuni, non ha molto senso. Però, questo non significa scrivere per tutto il pubblico. Significa scrivere per quelli che hanno voglia di ascoltare. Esistono persone che non ascoltano e hanno tutto il diritto di farlo, ma diciamo che la musica che non si ascolta, la musica che si può mettere di sottofondo mentre si parla, non esiste. Esistono persone che riescono a parlare con la musica di sottofondo. Il tentativo di comunicare è importante, certo, evitando la banalità, perché la banalità non comunica. Se vuoi dire qualcosa di complesso, evidentemente avrai bisogno di un linguaggio complesso, però farlo diventare complicato inutilmente, è inutile. Andare troppo incontro, invece, è inutile allo stesso modo, perché si rischia di non rappresentare niente del mondo in cui viviamo, e allora è finto. Il punto centrale è essere onesti, con se stessi e con gli ascoltatori. Ogni volta che si scrive un pezzo, a mio giudizio significa: questo sono io, in questo momento qui. Non riprendo mai un pezzo di vent’anni fa per aggiornarlo alla mia visione attuale, perché è una fotografia di come ero in quel momento, se sono stato onesto con me stesso e con chi mi ascoltava. Se adesso sono diverso, non lo scriverei mai più in quel modo. Secondo me in alcuni casi manca questa volontà di mettersi in gioco veramente. Quando sento un pezzo di musica di oggi, pretendo la stessa onestà intellettuale di quando ascolto Schumann».
Come questa comunicazione si traduce in pratica?
«Con onestà intellettuale e anche emotiva. Tutti questi discorsi hanno bisogno di essere concretizzati in un linguaggio reale. In molte occasioni uso le altre mie passioni oltre alla musica, per descrivere quello che sento, provo e vedo, ad esempio le leggi della fisica che molto spesso si avvicinano a una visione filosofica. In un mio pezzo intitolato Nessun luogo è lontano, per sei percussionisti, ho creato sei set di percussioni, ognuno dei quali richiama delle sonorità di una zona del mondo. I percussionisti seguono una struttura dettata da un processo fisico, che viene esplicitato all’inizio del pezzo da sei metronomi posizionati su una grancassa. Tra i metronomi avviene un fenomeno dovuto all’interferenza: se li fai partire tutti fuori sync, grazie al fatto che la membrana della grancassa li mette in comunicazione, questi metronomi vanno in sync, poi vanno fuori sync, poi tornano in sync di nuovo. Se gli stessi metronomi li metti su un tavolino, andranno fuori sync tutto il tempo, perché il tavolo non li mette in comunicazione. Allora, è esattamente quello che succede tra le persone. Se ognuno sta fermo nella sua posizione, non entra in nessun modo in comunicazione con quello che c’è intorno, continuando a dire la sua tutto il tempo e senza creare nessuna empatia. Se invece entra in relazione, in alcuni momenti si sincronizzerà, in altri no. Le percussioni riproducono i suoni di tutto il mondo a significare che come società possiamo sincronizzarci o desincronizzarci, esattamente come fanno i metronomi. In un’altra composizione, Disturbing Bach, per ensemble, utilizzo un altro principio fisico ovvero il secondo principio della termodinamica. Qualunque cosa facciamo, utilizziamo una determinata forza e una parte di questa forza va perduta per sempre contribuendo al naturale processo di entropia dell’universo, che a sua volta porta alla sua fine. In questo caso ho creato una macchina sonora che partiva da dei frammenti bachiani che gradualmente si sgretolavano diventando note che risuonano casualmente nell’ensemble e vanno verso una naturale entropia. Quello che mi interessava era osservare che cosa succede alla nostra storia nei millenni, come diventa entropia, cioè va verso la dissoluzione, la dispersione. Il tentativo è quello di descrivere il mondo e le sensazioni attraverso un linguaggio in cui comunque si comprenda quello che stiamo cercando di trasmettere».
Qual è il ruolo del compositore nella società di oggi?
«Tocchiamo un punto dolente. Possiamo, piuttosto, parlare del ruolo che il compositore dovrebbe avere e perché questo non succede. Il compositore dovrebbe essere una persona che ha una sua visione del mondo. In passato i compositori hanno avuto questo ruolo: ogni sinfonia, di Beethoven o di Mahler, racconta un mondo, una visione prospettica sul mondo contemporaneo. Torniamo quindi al problema dell’onestà intellettuale. Oggi, quando scoppia la guerra in Ucraina, qualcuno chiede un parere a un filosofo, a uno storico, a uno scrittore, magari a un calciatore o a un influencer, ma nessuno a un compositore. Quindi, evidentemente, il compositore non è riconosciuto come un intellettuale che ha una sua visione del mondo utile da condividere. Secondo me questo è il centro del problema su cui dovremmo lavorare. Perché se non parliamo di quello che accade oggi, nessuno ci chiederà mai che cosa ne pensiamo».
Non crede che il problema sta anche nell’atteggiamento dello stesso compositore che si è allontanato dall’opinione pubblica?
«Sì, ma credo che la questione sia legata alla musica che si scrive e non alla vita che si conduce. Pure Schumann stava tutto il giorno a casa, Bach stava sempre in chiesa. La questione è: quando scrivi la musica stai parlando onestamente del mondo in cui vivi oppure no? Se elaboro Haydn, come ho fatto nell’ultimo pezzo che ho scritto, 7 Meditazione su Sette ultime parole di Cristo sulla croce*, posso scegliere fra diverse operazioni: posso trascriverlo, il che a mio giudizio non serve a niente, perché lo ha già trascritto lui, oppure posso rileggerlo avvicinandolo al mio mondo. Com’è il mio mondo? È caotico e rumoroso. Se scrivo questo brano per flauto, uso il flauto come lo usa Schiarrino, se invece voglio farlo in una maniera diversa, prendo sei percussionisti e trasferisco un pezzo con un milione di note in un ambiente di quasi soli rumori».
Qual è la genesi di “7”?
«“7” nasce da una idea di un mio collega della Radio Vaticana, musicologo e critico Marco Di Battista, con il quale parliamo spesso proprio di questi argomenti. Ci chiediamo quando e soprattutto perché è successo che la musica sacra, ma anche la musica contemporanea più in generale, hanno perso il contatto col pubblico. Lui mi ha invitato a cercare questo contatto in un modo nuovo, sfidandomi a rileggere, meditare su quel testo di Haydn, che è un pezzo assurdo e del tutto amusicale in quanto composto da sette Adagi, uno dietro l’altro, e un brevissimo Allegro, terremoto finale. La sfida è stata quella di non riportare Haydn ai tempi nostri con sonorità diverse, ma di ragionarci sopra. Ho iniziato a scriverlo tre volte, perché ero partito sempre con idee sbagliate che non mi soddisfacevano. Sono arrivato all’idea di riprendere la musica di Haydn con il baritono che canta in latino e trattarla come se venisse da una radio lontana, come se ne arrivassero frammenti, disturbati. Tutto quanto è immerso nel mondo caotico e confusionario in cui viviamo, che però ha esattamente gli stessi problemi del mondo di Haydn. Quando prendiamo proprio il climax del pezzo, Gesù dice sulla croce “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”, e ci accorgiamo che rispecchia il grido di una umanità che non viene ascoltata. Il baritono canta in latino, mentre la nostra umanità è una Babele di lingue. Ho usato venti lingue e quaranta persone, un uomo e una donna per ogni lingua, che ripetevano questa frase. Ho sommerso le loro voci in un ambiente di percussioni, che a volte le fa emergere attraverso l’elettronica, e altre volte le soffoca nel caos. Tutti noi chiediamo aiuto quando ne abbiamo bisogno e lo chiediamo come singolo. L’umanità nel suo complesso ogni tanto fa sentire qualche singola voce, ma altre volte le soffoca. La prima voce è di una donna ucraina, mentre l’ultima è di un uomo russo. In mezzo ci sono l’inglese, il francese, il tedesco, il polacco, l’italiano, l’ebraico, l’arabo, ecc. L’idea è proprio questa: se quella frase significa qualcosa ancora oggi, è il grido del singolo soffocato dall’indifferenza dell’umanità. È la rielaborazione di un capolavoro antico che diventa uno spunto su cui meditare. L’ho intitolato “7”, un numero, in modo che ognuno possa leggerlo nella sua lingua. Perché l’unico sistema di segni che tutti conosciamo e riconosciamo, è quello dei numeri».
“7” è quindi una composizione sacra? Cosa pensa della musica sacra oggi? Il mondo ne ha ancora bisogno?
«Penso che “7” sia un brano sacro, non liturgico. La questione sta proprio in questa distinzione netta che crea problemi: la musica sacra esiste e ha i più vari linguaggi, anche molto avanzati con veri e propri capolavori, la musica liturgica, invece, essendo una forma, sta molto indietro rispetto ai linguaggi contemporanei. Quello che penso è che per la riflessione sul sacro non ci sarà mai una fine, perché è un’esigenza che ha chiunque, credente o non credente. È una riflessione di carattere metafisico, sul senso della vita. C’è tantissima letteratura di brani anche molto, molto belli. Invece, la questione liturgica ha segnato una battuta d’arresto negli ultimi cinquant’anni, perché non si è ancora trovato un linguaggio che funzioni per coinvolgere l’assemblea durante la celebrazione e che al tempo stesso sia di valore artistico elevato, comparabile con quello della musica contemporanea non liturgica. Questo, purtroppo, ha lasciato spazio a musiche di valore artistico molto limitato che vengono utilizzate regolarmente. Perché laddove si lascia uno spazio vuoto questo viene riempito da qualcosa altro».
Qual è il ruolo delle istituzioni nel lavoro di un compositore in Italia?
«Il sostegno alla musica contemporanea si fonda sulla promozione dei nuovi lavori e quindi vengono premiate quelle istituzioni che li commissionano, soprattutto ai giovani il che è giusto. Il problema della musica contemporanea non è la prima esecuzione assoluta, ma la seconda che non c’è quasi mai. Questo perché alle istituzioni non conviene, da un punto di vista economico, mettere in programma pezzi che non sono in prima esecuzione assoluta. È una questione di punteggi e finanziamenti. Questo genere di problema si ripercuote anche su compositori che sono delle pietre miliari: Berio, Maderna, Rihm, Lachenmann… compositori centrali che vengono eseguiti pochissimo in Italia. Questo fa sì che non si consolidi un repertorio contemporaneo, che in realtà non è nemmeno più contemporaneo, perché questi compositori sono morti cinquanta anni fa. È sostanzialmente impossibile programmare stagioni “tradizionali” con dei brani di compositori in attività, che vengono relegati generalmente in festival specialistici, spesso molto belli, ma che hanno una scarsissima comunicazione con le stagioni delle istituzioni più grandi. Quindi andiamo a vedere l’ottocentesima versione della Traviata, ma raramente ci capita di andare a vedere un’opera nuova che è sempre un evento bellissimo. Un’opera nuova non deve necessariamente essere un capolavoro, ma può esserlo, non lo sappiamo. Verrebbe da fare una statistica: quante opere nuove sono state messe in scena nel Settecento e quante di queste le mettiamo ancora in scena oggi? Io penso che l’1 % è troppo. Quindi, ogni volta che vado a sentire un concerto di musica contemporanea e ci sono cinque composizioni, se nessuna di queste cinque passerà alla storia è la normalità. Se una tra cinquant’anni la ascolteremo ancora, quella sera sono stato particolarmente fortunato. Se fra cinquant’anni non mettiamo in programma Maderna, allora è inutile essere stati fortunati cinquant’anni prima».
Qual è il futuro della musica allora? Come vede la multidisciplinarietà della composizione?
«Non si può dire verso dove andiamo nella musica, perché non si può dire verso dove sta andando l’umanità. La speranza è che la musica si muova sullo stesso piano di sviluppo del genere umano. Andando nella stessa direzione in cui si sta sviluppando l’umanità, la multidisciplinarietà della musica è naturale. In un mondo in cui ho a disposizione contemporaneamente cose diverse, sarebbe museale continuare ad agire senza tener conto della realtà. La speranza è che la musica segua gli sviluppi da un punto di vista sociale, culturale e filosofico, e non rimanga invece incagliata in quella specie di mostro che gira sempre su se stesso senza produrre niente, che è un sistema economico come quello del pop. Se gruppi come i Mäneskin, che criticano la società all’interno di un sistema, dall’interno di quel sistema che in più li sostiene, è evidente che è un modo per mettere a tacere quel tipo di disagio che possano avere realisticamente i loro fan. Lo stesso vale per Vasco Rossi, o per i Rolling Stones che a 80 anni cantano ancora “I can get no satisfaction”. La questione è che se tu inserisci il disagio all’interno di un sistema economico fatto per dimostrare che le cose sono bellissime, lo abbatti. La speranza è che nella musica d’arte ci sia ancora qualcuno che sia in grado di guardare il mondo e dire: questa cosa qua mi mette a disagio».
*7 Meditazione su Septem verba Christi in cruce di Joseph Haydn per percussioni, baritono ed elettronica (2023), commissionata e trasmessa in prima mondiale radiofonica da Radio Vaticana, verrà eseguita in prima esecuzione assoluta in concerto il 27 febbraio 2024 all’interno della 79a Stagione Concertistica della IUC Istituzione Universitaria dei Concerti di Roma.