di Attilio Piovano
Al Regio di Torino è in scena la pucciniana Rondine, in assoluto (e ingiustamente) la meno eseguita tra le opere del musicista lucchese, a partire da sabato 18 novembre, per complessive sei recite sino al 26 novembre (ma ne erano programmate sette): alle quali occorre aggiungere l’Anteprima giovani. Riferiamo in merito a domenica 19 (primo cast), dacché per l’appunto è ‘saltata’, a causa dello sciopero nazionale, la vera ‘prima’ che era prevista per venerdì 17.
E si tratta dunque – merita rimarcarlo – della più rara e negletta delle partiture pucciniane, partitura che costò non poca fatica all’autore, se non veri e propri tormenti interiori. Dopo la première a Monte Carlo del 27 marzo 1917, Puccini s’indusse a rimaneggiare il lavoro e ne derivò la cosiddetta versione di Palermo (aprile 1920), andata in scena altresì a Vienna e che comportò varie modifiche, tra cui la trasposizione al registro di baritono del ruolo di Prunier e l’introduzione dell’aria di Ruggero «Parigi!» (oggi normalmente interpolata alla primigenia versione, ed è quanto accade ora al Regio che per l’appunto utilizza la versione del 1917, ma con tale interpolazione), e poi ecco le modifiche al terz’atto con l’introduzione di una lettera anonima, volta a determinare lo ‘scioglimento’ della vicenda, attraverso la quale Ruggero viene a sapere la verità su Magda, ed è circostanza ben nota agli esegeti. Ma ci fu poi una terza versione ancora (1921) che sostanzialmente ripristinò l’edizione originale; Puccini pur tuttavia la lasciò cadere, per motivi ignoti, pur considerandola definitiva e tale versione mai venne rappresentata vivente l’autore.
Insomma, siamo in presenza di una partitura dalle vicende accidentate, frutto evidente di dubbi e ripensamenti, ovvero contraddistinta da un travagliato e sofferto iter creativo. Ciò nonostante, quantomeno a giudizio di chi scrive, tale titolo pucciniano, pur non raggiungendo gli esiti eccelsi di Tosca e Madama Butterfly, Suor Angelica e Turandot, costituisce, a suo modo, un (quasi) capolavoro formato mignon. Ancora una figura femminile, ancora un’eroina ‘perdente’, una strumentazione scaltrita, mano per lo più felice nell’invenzione melodica e molto altro.
La rondine – si sa – era originariamente destinata alle scene viennesi e di operetta si sarebbe dovuto trattare (un genere quanto mai ‘lontano’ dal genio pucciniano), ma venne poi ben presto, e saggiamente, convertita in commedia lirica. E da allora ecco che gli equivoci e, più ancora, i misconoscimenti del reale valore di una partitura eccellente ed elegantissima, sono perdurati purtroppo da parte di pubblico e critica sino ad anni relativamente recenti, finendo per danneggiarne la reputazione. E la prova di tale circostanza è il fatto che tuttora il pubblico non affolla i teatri in presenza di tale titolo, anteponendogli pressoché tutte le altre partiture pucciniane. Ed è un vero peccato. Si è parlato di una Traviata minore, o più propriamente in tono leggero e smagato: le analogie, ovvero le assonanze e le affinità pur senza forzare, invero non mancano; si tratta pur sempre di una ‘mantenuta’, come si diceva un tempo, la location analogamente è parigina, poi ecco l’innamoramento da parte della protagonista Magda per un giovine che viene dalla provincia, quindi la fuga d’amore in Costa Azzurra e, da ultimo, il distacco, vuoi «per un un sussulto morale», come taluno ebbe a scrivere, vuoi per il prosaico venire meno delle sostanze e allora l’incombere di spese e conti non saldati e via elencando. Ed è la tomba dell’amore e per Magda il ritorno alla sua ‘posizione’ di mantenuta (significativo che, nella rappresentazione torinese, Magda indossi in maniera plateale il collier avuto in dono e che, altrettanto platealmente, aveva gettato ai piedi del suo maturo e ricco ‘uomo’ e ‘protettore’, nella promiscuità del locale notturno).
E ancora: si è ingigantita capziosamente la crisi creativa (e umana) che, a onor del vero, attanagliava Puccini a metà Anni Dieci del Novecento, dopo Fanciulla e prima del Trittico; si è denigrato il libretto di Adami (certo non eccelso e pur fitto di puntuali e minuziosi didascalie, ancorché funzionale alla vicenda) e si è lamentata da sempre la mancanza di quei temi indimenticabili che del lucchese sono la firma.
Ma i valori della Rondine sono altrove: nella tramatura orchestrale, nella modernità dei timbri e nella bellezza della veste musicale. Sicché l’edizione torinese costituisce ragionevolmente l’attesa occasione per misurare la tenuta anche drammaturgica dell’opera stessa. Una sfida sostanzialmente vinta al Regio di Torino. Ed ecco allora che è emersa, in modo passabilmente accettabile, l’essenza ultima di quest’opera venata di ironia e mestizia, popolata di amori fatui, inquietante affresco di una realtà frivola e ipocrita, dove una spaventosa vacuità di matrice segnatamente novecentesca (pirandelliana e nevrotica, se si vuole) domina sovrana, dove non c’è posto per sentimenti veri, per l’amore grande, quello intenso e fin tragico che ha sempre caratterizzato le eroine pucciniane, da Manon a Mimì, da Floria Tosca a Ciò ciò San, giù giù sino alla piccola, dolce Liù (ancorché Magda assieme a Minnie di Fanciulla del West sia l’unica a non morire a fine opera). Ed è questa forse la ragione ultima della non piena riuscita della partitura pucciniana, da cui le perplessità da parte di critici e studiosi (partitura pur eccelsa sul piano musicale), ovvero il soggetto troppo distante dal cliché pucciniano. Non a caso, il Regio, in exergo, ha espressamente intitolato l’allestimento «Sensualità, eleganza e disincanto».
Dal podio, ben assecondato dall’Orchestra del Regio in buona forma, occorre sottolinearlo, Francesco Lanzillotta ha fatto del suo meglio per restituire la fragranza emotiva e timbrica dell’opera. Pur tuttavia ha privilegiato a nostro avviso quasi solamente il lato frivolo e pimpante, con tempi sciolti, brillanti e scorrevoli, come giusto, e non solo nelle svariate danze di cui la partitura è costellata (e dunque il valzer, ma anche movenze di fox-trot, slow-fox e il tango); ma avremmo desiderato maggiori indugi, più approfondimento. Per dire: non si può passare dal one step al toccante clou drammaturgico-sentimentale senza nemmeno un respiro o quasi (così verso la fine del second’atto). E poi spesso la tendenza era quella di ‘coprire’ le pur valide voci, puntando su effervescenze e clangori talora eccessivi. Più attenzione alla miriade di dettagli armonici e soprattutto timbrici di cui è ibridata la superba partitura della Rondine (per la quale l’autore stesso nutriva sentimenti contrastanti, passando dall’affettuosa predilezione all’auto-denigrazione nei momenti di depresso sconforto) e maggiori finezze di tratto avrebbero di certo giovato al tutto; insomma la tendenza, sempre a giudizio di chi scrive, è stata quella di un certo ‘appiattimento’ dinamico ed agogico che ha finito per condizionare la lettura dell’opera stessa, orientandola in una sola direzione. Un’occasione in parte perduta. Lanzillotta ha peraltro centellinato comme il faut il celebre «Chi il bel sogno di Doretta», pagina imbevuta di quella struggente malinconia che dell’opera intera è il manifesto espressivo.
Ed ora le voci. Il soprano russo Olga Peretyatko torna al Regio dopo la partecipazione ai Puritani nel 2015; buona vocalità e gran presenza scenica, ha dato corpo a una Magda (parte vocalmente impervia) si può dire a tutto tondo, convincendo sia sul piano vocale, sia su quello attoriale. Qualche asprezza, soprattutto negli acuti e qualche disomogeneità qua e là non ne hanno intaccato la performance, sicché in complesso la sua è stata una prova convincente, meritatamente applaudita e apprezzata. Davvero molto, molto bene, per restare sul versante femminile, la cameriera Lisette sbozzata dal soprano romeno Valentina Farcas (che già aveva partecipato alla produzione del Falstaff nel 2017), della quale si sono apprezzate la verve e la freschezza, sia vocale sia attoriale, perfettamente nella parte della frivola cameriera. Sul côté maschile, debutto al Regio per il tenore Mario Rojas nei panni di Ruggero (non sempre l’intonazione era perfetta, in qualche punto la sua veemenza vocale l’ha tradito), laddove il tenore Santiago Ballerini (Prunier) torna dopo L’elisir d’amore del 2018. Benino entrambi, dunque, pur senza punte di eccellenza. Qualche eccesso per così dire di marca ‘verista’ per Ruggero nell’epilogo dell’opera, ma più sul piano dei movimenti che non sotto il profilo strettamente vocale. Al regista occorre dunque imputare l’eccesso di esagitata veemenza impresso al ‘melodrammatico’ distacco tra i due, dopo la famigerata lettera della madre che acconsente alle nozze (sic) e la disillusone di Ruggero che apprende invece del passato incancellabile di Magda dalla sua stessa ‘confessione’: a dominare era un’enfasi che ha in parte vanificato gli sforzi del cantante per rendere credibile il personaggio. Corretto Vladimir Stoyanov (un Rambaldo austero e ipocrita, falso moralista quale dev’essere), validi i comprimari.
Dell’allestimento si sarebbe dovuto parlare fin dall’inizio. Ne scriviamo ora, dacché di nuovo e speciale allestimento si tratta, realizzato grazie al sostegno di Italgas, volto a celebrare il geniale Mollino, nel 50° della morte che coincide con il 50° dell’inaugurazione del Nuovo Regio, di cui Mollino fu straordinario e tuttora ammiratissimo progettista (in corso attualmente nel foyer del teatro una mostra sulla sua attività con manufatti di pregio, fra i quali anche la celebre auto bisiluro, e poi progetti, oggetti, costumi, ritratti e quant’altro). L’opera non riappariva al Regio dal 1994 (quando venne utilizzata la versione del 1921 con la nuova strumentazione di Lorenzo Ferrero in prima mondiale). Regia, scene e costumi recano la firma di Pierre-Emmanuel Rousseau che ha espressamente deciso di ambientare l’opera nel 1973, la data dell’inaugurazione del molliniano Regio, quale esplicito hommage, data peraltro non lontana dalle rivolte del Sessantotto; e sono anche gli anni della libertà sessuale, come fa notare lo stesso regista, definendo la partitura un’opera a suo modo femminista e sottolineando l’indipendenza di Magda (invero è una vittima e finisce per ricadere sotto la protezione del suo ricco, ma non innamorato amante).
E allora ecco in apertura un’alcova sulla sinistra del palcoscenico, con pareti dorate che paiono un molliniano remake di certa art déco, due vasi azzurri di estrema eleganza, più al centro l’immancabile mezza coda per la ‘canzone’, sul fondo un riquadro ad ante scorrevoli che ricorda il boccascena del Regio, giocato su oro e nero e a destra il salotto fatto di cubi neri, e qua e là più o meno riconoscibili pseudo citazioni molliniane (una tigre in ceramica, una testa di cavallo ed altro ancora).
Ma la vera sorpresa per gli spettatori è trovarsi in apertura del second’atto quasi ‘specchiati’ dacché il Bal Bullier, celebre locale parigino in cui è ambientata l’opera, è in realtà la riproduzione più o meno fedele del foyer del Regio (coi celebri velluti rossi, i globi luminescenti, le ringhiere, gli specchi). Laddove il terz’atto riprende l’impianto scenografico pulito e lineare del primo, con lo spostamento a sinistra del mezza coda e l’aggiunta di alcune palme che simulano un’ambientazione nei pressi di Nizza; sulla destra l’azzurro cielo della Costa Azzurra e due sdraio bianche, cui fanno da contraltare l’abbigliamento casual di Ruggero e Magda.
Bene dunque la regia, con qualche piccola caduta di gusto: per dire, Lisette che beve vistosamente dopo essere stata generosamente riassunta da Magda, il suo muoversi sempre agitato. Nella scena del locale notturno incontriamo una folla policroma, eterogenea e inclusiva, come usa dire oggi, dunque per esplicita ammissione del regista scenografo «ogni genere di persone ambigue ed eccentriche», come nei locali notturni di quegli anni, e dunque «personaggi trasgressivi come trans, drag queen, e ballerini di vogueing» con tocchi di trash e riflessi vagamente kitsch. L’effetto a dire il vero risultava un po’ pacchiano; l’idea peraltro non è nuova, qualcosa di simile avevano realizzato Giorgio Gallione (regista) e lo scenografo Guido Fiorato al Carlo Felice di Genova nel marzo del 2018. Curiosa e bizzarra (ancorché comprensibile, anche se non del tutto condivisibile) l’idea di attingere, come ad un enorme thesaurus, nello spirito del trovarobato, costumi eclettici e diversissimi dai magazzini del Regio (altro esplicito hommage) e dunque abiti i più diversi che però devono aver destabilizzato un poco il pubblico, accanto ai camerieri discinti, a trans e citate drag queen. Validi peraltro i movimenti coreografici del second’atto (Carmine de Amicis) e fascinosi i costumi dei protagonisti: l’abito oro di Magda e quelli nero, viola e rosso delle donne che l’attorniano (i colori molliniani), mentre gli uomini sono in smoking.
Un plauso davvero speciale, infine, per il Coro del Regio – lo si è lasciato per ultimo per rimarcarne il valore – ottimamente istruito da Ulisse Trabacchin che si conferma per il Regio un’acquisizione artistica di alto livello. A lui e al coro, dunque, un sentito bravò.
Buon successo per uno spettacolo a conti fatti di impatto che si chiude con quel retrogusto di amarezza, quelle striature di spleen che della partitura – merita ribadirlo ancora una volta – sono il dato più vistoso (funzionali le luci di Gilles Gentner).