Con un allestimento riuscito ed una regìa ricca di riferimenti «precisi a puntuali» è andata in scena a Genova l’opera di Bizet. La Feria de Sevilla «si trasforma nella festa popolare che accolse l’arrivo di Fidel Castro all’Avana l’8 gennaio 1959»
di Attilio Piovano
UNA «CARMEN» COLORATISSIMA, quella allestita dal ‘Carlo Felice’ di Genova per la pirotecnica e fantasiosa regia di Davide Livermore (che firma anche le efficaci, coerenti luci). Una Carmen ambientata a Cuba, per ammissione del regista – così nelle sue accurate note in programma di sala – precisamente nel 1959 nel pieno del Triunfo de la Revolución, e allora Don José è un ex brigadiere dell’esercito di Fulgenico Batista, il primo atto anziché la piazza di Siviglia diventa il Molecón, coreografico lungomare dell’Avana (reso con un bel gioco di proiezioni, a restituire il movimento incessante delle onde lunghe e le nuvole in rapido movimento, video che così spesso Livermore adotta nei suoi allestimenti, per dire da Aci e Galatea a Idomeneo, in questo caso di innegabile resa); e ancora, la taverna di Lillas Pastia diventa il cabaret Tropicana (dove cantavano Frank Sinatra e Nat King Cole), e dunque marinai e avventori policromi, bonghi e orchestrina jazz a centro sala; in apertura la folla (e non solo le sigaraie) fuma vistosamente sigari «Partagás» o «Romeo y Julieta» mentre il terz’atto non è più il covo dei contrabbandieri sulle impervie montagne, bensì «un avamposto dei barbudos sulla Sierra Maestra» e da ultimo la scena tragica della Feria de Sevilla «si trasforma nella festa popolare che accolse l’arrivo di Fidel Castro all’Avana l’8 gennaio 1959». Riferimenti precisi e puntuali, dunque una precisa e coerente scelta registica, non semplice, gratuita provocazione (bellissimi e coloratissimi i costumi di Gianluca Falaschi). Già durante l’Ouverture si viene subito catapultati in medias res. Ecco l’animata scena, ben resa dagli ottimi movimenti coreografici di Giovanni Di Cicco (la folla, ma anche i bambini divisi in ‘fazioni’, coppiette e via elencando). I mitici balconcini del Carlo Felice che si affacciano sul proscenio hanno insegne fluo con scritto Hotel Sevilla e Policia, ad indicare luoghi scenici. Dal podio Battistoni affronta la partitura con una verve ed una scorrevolezza ammirevoli, tenendo sempre alta la tensione, ottimamente assecondato dall’orchestra in buona forma.
La scena delle sigaraie e della manifattura tabacchi (movimentatissima e pur regolare quanto a simmetria di masse) regala emozioni e brividi; soldati in camicia rosso geranio e pantaloni ocra, ragazze azzurrovestite. Ottima la performance del coro istruito da Pablo Assante (un cenno merita poi anche il coro di voci bianche istruito da Gino Tanasini, ottimi ed aitanti ‘monelli’). Micaëla, vestitino fru-fru anni Cinquanta con valigia vintage, fa la sua apparizione scendendo da un’auto bianca made in Usa, e i soldati le fanno ressa comme il faut, ma senza eccessi di volgarità, andando e venendo dalla sede della Policia (sovrastata da detto balconcino). E dunque Carmen, e la sua folgorante apparizione: provocante e rosso vestita. Quando poi Micaëla si intrattiene con don José appare più volte a fondo scena con José che la osserva, ammiccante, mentre Micaëla (ingenua e ignara) guarda sempre verso il pubblico, come se guardasse ‘in macchina’ un obiettivo di una cinecamera. La scena della rissa trasuda come è giusto fisicità e carnale sensualità: una delle sigaraie (forse la stessa che poi sarà ferita) bacia sulla bocca Carmen che poi la respinge. Qualche perplessità desta nel pubblico (e nella critica) la scena della seduzione, o più propriamente l’arresto di don José. Non ci viene mostrato che lascia fuggire Carmen e dunque non si capisce bene perché debba venire arrestato (e infatti la faccenda è risolta in modo assai bislacco). Non solo: al posto del (non) arresto la scena si apre con un flash forward, un fermo immagine, un anticipo di fotogramma, ecco già le ragazze pon-pon, le donnine allegre del Tropicana. Boh, le perplessità erano palpabili in teatro durante l’intervallo e taluno definiva le protagoniste del night club Tropicana le ragazze del «cacao meravigliao» ricordando la fortunata trasmissione tv di Arbore. Poi al Tropicana si beve e si danza. Immancabile l’arrivo di Escamillo, a bordo della stessa auto decappottabile.
Quarto atto, tutt’altra atmosfera, fatalismo tragico, donne con anfibi e nero vestite (ma per la scena delle carte indossano chissà perché veli bianchi da «sposa vergine» come direbbe la Littizzetto). L’immancabile auto a fondo scena con cadaveri (degli imperialisti, evidentemente) mentre i contrabbandieri, pardon i rivoluzionari, armeggiano con un telefono da campo. Non si capisce bene perché stavolta Escamillo arrivi in moto e poi se ne vada sull’auto (non prima di aver rimosso i cadaveri facendoli scivolare dal cofano con nonchalance). Dell’ultimo atto già si è detto: transenne stile cantieri della metropolitana e una incastellatura di tubi sulla quale le donne e lo stesso Escamillo salgono, vistosi riferimenti castristi e (incomprensibili) atteggiamenti tribunizi dello stesso Escamillo che dal palco (più ponteggio in tubi) pare l’alter ego di Fidel. Bella l’idea di far ruotare più volte la scena, ma alla fine diventa una girandola e distrae (luci abbacinanti a fondo scena come accecanti fari di auto). Da ultimo la tragedia che si consuma nella parte anteriore del palco: don José, più supplicante come un ‘marito’ che non amante roso dalla gelosia, ma alla fine infierisce con convinzione sul corpo di Carmen (così come aveva esageratamente e un po’ forzosamente) aggredito Zuniga. Regia coerente, dunque, plausibile chiave di lettura (anche se taluno non la condivideva) con alcune stranezze e un che di irrisolto qua e là,
Ed ora le voci (riferiamo in merito alla recita di sabato 18 maggio, alla quale abbiamo assistito, regolarmente svoltasi, come pure quella del 13, laddove la prima, dopo un avvio burrascoso con streaming e in forma ‘all’italiana’ – ne hanno riferito i giornali – è sostanzialmente saltata per sciopero delle maestranze). Molto bene Annunziata Vestri, una Carmen sensuale e vocalmente a posto, applaudita nella immancabile Habanera «L’amour est un oiseau ribelle» (al posto della rosa un foulard o simili che don José terrà con sè nei mesi di gattabuia con feticistica pervicacia), idem nella attesa Seguidilla; bene anche la Micaëla di Maria Teresa Leva (qualche incertezza nei pianissimi e qualche asprezza agli acuti, ma ha riscosso vivi consensi nella sua celeberrima emersione nel III atto). Leonardo Caimi ha dato corpo ad un don José piuttosto mite, convincente sul piano vocale, così pure al pubblico sembra essere piaciuto l’Escamillo di Alexander Vinogradov (ma la sua voce non è forse la più adatta per il personaggio, un po’ sbiadito il suo «Toreador», pur corretto). Bene i comprimari, tutti allineati su un buon livello, e allora Daria Kavalenko e Marina Ogii (Frasquita e Mercédès), Roberto Maietta, Manuel Pierattelli (Dancaïre e Remendado), John Paul Huckle (uno Zuniga che il regista ha voluto esageratamente sbronzo e repellente), e Ricardo Cramton (Moralès). Molto applausi e un successo personale (meritatissimo) per l’ottimo Battistoni cui spetta il merito di aver firmato un’eccellente edizione musicale di Carmen della quale conserveremo a lungo emozionanti ricordi: sonori e visivi.
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