Un’opera di natura politica, un tentativo pienamente riuscito per una nuova visione del teatro da camera. La ripresa grazie al chitarrista Luigi Attademo, Murmuris, Gamo
di Elena Abbado foto © Enrico Gallina
L’ILLUSIONE DELLA LIBERTÀ ieri come oggi. Riascoltare El Cimarròn di Hans Werner Henze alla luce dei fatti di politica internazionale dell’ultimo periodo, ci permette una riflessione sull’attualità di contenuti proposti da quest’opera, non sempre possibile per quelle composizioni del repertorio contemporaneo strettamente connesse a precise missioni culturali. Il 10 gennaio scorso, presso il Teatro Cantiere Florida di Firenze, alcuni episodi della vita di Esteban Montejo, uno schiavo cubano eletto a simbolo del suo paese, sono stati ancora una volta occasione per meditare sulle vicende legate alla storia di un popolo oppresso tra il periodo di dominazione spagnola e quello del protettorato statunitense, in un clima rivelatosi recentemente favorevole alla fine del lungo embargo statunitense contro Cuba.
Ed è proprio nell’isola caraibica che El Cimarròn, Biographie des geflohenen Sklaven Esteban Montejo – questo il titolo completo – viene messo in musica. Fu composto da Henze durante un soggiorno tra il 1969 e il 1970 con l’intento di scrivere un’opera di natura politica, in un tentativo pienamente riuscito di nuova visione del teatro da camera. Il libretto di Hans Magnus Enzensberger, articolato in quindici canzoni, fu tratto per volontà dello stesso compositore dalla biografia del 1966 che lo scrittore cubano Miguel Barnet aveva pubblicato a seguito di un’incontro dal vivo con l’anziano Montejo, allora già centenario.
Dopo la prime presentazioni dell’opera nel 1970 all’Aldeburgh Festival (giugno), al Festival dei due mondi (luglio) e al Berliner Festspiele (settembre), questo “Rezital für vier Musiker”, definito così dallo stesso Henze, diviene presto una delle rare opere di quegl’anni ad entrare di fatto in repertorio, forse grazie anche alla sintesi di forze che nulla toglie però alla sua ricchezza espressiva.
In questa ripresa fiorentina voluta dal chitarrista Luigi Attademo con Murmuris in collaborazione con Gamo e nata dal sostegno della Ernst von Siemens Musikstiftung, possiamo dire che El Cimarròn rivive pienamente dal punto di vista musicale.
Henze affida la parte di Montejo ad un cantante-narratore, un baritono, con il compito d’intrattenere il pubblico parlando della sua vita in prima persona, in un alternarsi di suggestioni volta per volta simili alla tradizione orale dei cantastorie africani o alla confidenza intima strappata nottetempo in un campo di canne da zucchero. La partitura è un distillato di sonorità caraibiche affidate a tre famiglie timbriche essenziali: percussioni, fiati e, a sintetizzare gli strumenti a corde, chitarra. La prima, già da sola, si dispiega come un esercito rivoluzionario, coinvolgendo l’intervento di tutti e tre gl’interpreti in uno sforzo non solo musicale, ma anche fisico. L’esito è quello di un’archetipo di nuova opera popolare. In questa ripresa, Maurizio Leoni (voce), lo stesso Attademo (chitarra e percussioni), Luciano Tristaino (flauti e percussioni), Maurizio Ben Omar (percussioni), sono tutti bravissimi sia per tenuta, che per precisione, incantandoci con il ritmo dei loro corpi imposto dal compositore. La mise en scène di Laura Croce si sintetizza nella scelta di mantenere i musicisti sul palco, destinando a loro molta parte dell’attenzione che, in altre produzioni recenti, è concentrata solo sulla figura del cantante. Scelta netta e coerente che determina il carattere dell’intero spettacolo, anche coadiuvata da un uso proficuo delle luci e di pochi elementi, come una panchina e una catena quali oggetti ausiliari di Leoni. Inoltre, la moderna veste del Teatro Cantiere Florida, nel quale la compagnia Murmuris ha residenza stabile, con la sua semplice struttura in mattoni a vista, contribuisce a creare ad un’atmosfera consona ed essenziale.
Il lirismo del dramma viene espresso da Maurizio Leoni, che in questa versione recita in inglese, in un alternarsi di canto e parlato, un continuo mutamento timbrico a diversificare le atmosfere delle varie sezioni, a loro volta accompagnate da dialoghi con chitarra e flauti. Come la voce, anche le percussioni sono sempre presenti, a costituire un battito ancestrale della terra sofferente.
Buona l’idea di un commento visivo a compensare l’assenza della danza, elemento, quest’ultimo spesso utilizzato nelle recenti produzioni estere. Il video però, la cui presenza in una produzione è oggigiorno considerata già di per sé carta vincente per un pubblico sempre più alla ricerca d’immagini, è un coltello dalla doppia lama. Ne è in un certo modo esempio il video-progetto pensato da Francesco Migliorini, che risulta didascalico, forse non all’altezza dell’interpretazione. Alla parola catene compaiono immagini di catene, alla rievocazione del sangue compare il sangue, alla sezione sulla foresta ecco un’immagine di foresta, e via dicendo. Ci aspettavamo qualcosa di più.
In questa produzione, il testo in italiano apparso sul video non ha molto legame con quello recitato in inglese dal cantante: a volte un riassunto, che va a sostituire il libretto, altre la volontà di traduzione fedele ma mai in sincrono, precedendo o seguendo senza logica. Effetto probabilmente voluto, ma totalmente controproducente per l’attenzione dello spettatore, con il rischio di appesantire l’intero spettacolo. Le continue divergenze sono dovute al fatto che entrambe le versioni italiana e inglese, non sono altro che traduzioni dall’originale tedesco, i cui autori non sono stati citati. Nella somma degli elementi di questa ripresa fiorentina di Murmuris, prevale però la musica con il suo potere senza limiti, la bravura degl’interpreti e la volontà di rieseguire un’importante classico contemporaneo.