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IL PIZZICO
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di Luca Pavanel
Tavole rotonde, attributi quadrati. Di per sé la notizia è quasi vecchia quanto il mobile a quattro piedi per le conferenze. Ma quando ci si trova nel bel mezzo di un festival di un certo spessore a sorbirsi un dibattito che stroncherebbe un Tyrannosaurus Rex nel pieno della sua giovinezza beh, allora, pensare alla cicuta per sottrarsi ai cosiddetti “lavori” non è improbabile. Ma il dovere, si sa, chiama, e pur di non venir meno si resta in sella ritti, nella propria armatura di esperti interessati, come il cavaliere inesistente di Italo Calvino (ndr. si perdonino le citazioni). Ma per capire la questione, meglio partire dal principio.
La vicenda in oggetto si è consumata in un pomeriggio uggioso, presso un auditorium con poca luce, in una città nordica di buone offerte musicali, con la tristezza che chissà perché aleggiava. Tema: “Le fonti ispirative, quale futuro”; qualcuno leggendo il cartello ha provato un brivido lungo la schiena…
Chi è compositore – o più in generale musicista – sa o dovrebbe sapere, chi non lo è davanti a quel titolo potrebbe avere non pochi dubbi. Una “spiega” semplice e super-sintetica può servire, anche se approssimativa: l’autore per realizzare la sua opera cerca o gli arrivano suggerimenti dalla propria interiorità, oppure dal mondo esterno e spesso un pianoforte, un violino o un programma informatico fanno da medium. Oggigiorno c’è di tutto e di più. A parte i sistemi tradizionali con lo strumento, ci sono quelli che per comporre usano modelli matematici pazzeschi, certi manipolano i suoni dell’Uomo catturati dal cosmo, altri ancora registrano i rumori della cucina e li mettono in note, altri ancora se potessero calare un microfono nella tazza igienica e a partire da lì, scrivere variazioni sul tema, per dire: lo farebbero (e magari è già stato fatto).
Ma il punto non è il cosa, il come – che già son problemi – ma è il quando, con quale tempo a disposizione. Dunque il titolo del convegno di cui sopra, avrebbe dovuto avere essere: “Le fonti ispirative, quale presente”. O meglio, scherzandoci un po’ su: “quanti minuti al giorno…”.
Già, perché nel nostro tempo, i compositori (ma in generale i musicisti) – soprattutto quelli delle ultime generazioni – per vivere devono farsi in quattro e in contemporanea, quante volte pagati così così non si sa: A) insegnano nelle scuole pubbliche e private; B) scrivono saggi, articoli e programmi di sala; C) se ancora suonano, lo fanno magari anche feste e matrimoni, un po’ segretamente perché “non sta bene”; D) dulcis in fundo tengono pubbliche relazioni attraverso blog, social network e incontri vari. Certo, non è come andare nelle vecchie miniere del Sulcis (Sardegna)… Ma, insomma, il tempo per esercitarsi, mettersi a tavolino, fare una bella passeggiata, riflettere davanti a un bicchiere di vino… farsi venire un’idea che sia personale, il più possibile almeno. Nessuno dice che bisogna ritornare a meditare nel silenzio alla clorofilla dei giardinetti, magari dando da mangiare ai piccioni, magari come faceva Olivier Messiaen, che poi con il canto degli uccelli visti al parco c’ha scritto la metà delle sue opere. E che opere… Nessuno vuole sostenere che, se non si guarda per una notte intera la volta celeste (a Milano peraltro poco visibile in inverno), nella testa non spunta niente; e neanche che bisognerebbe chiudersi in una botte come Diogene, a filosofeggiare, per cavare quella noticina che nessuno ha mai suonato; però: a volte un passo indietro dalla quotidianità frenetica e dalle sue mille gabbie imposte e/o auto-fabbricate, potrebbe far bene alla creazione, alla musica, e ai suoi tentativi. Meditate gente (soprattutto giovane), meditate…
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La parola chiave è proprio quel “bisogna”, che in parte significa “va fatto” e in parte segnala la necessità tutta interiore di inventare, di proseguire col godimento del pensiero e dei suoni. Ed è vero: serve tempo. E’ un lusso che è faticoso conquistarsi ma va trovato e messo al servizio dell’ispirazione, che, a mio modesto parere, è una forma di ricerca. mp