Riflessioni sul Don Giovanni che ha inaugurato la nuova stagione del Teatro alla Scala
di Laura Bigi
Il vero momento di soddisfazione di ogni prima scaligera è il dopo, ovvero il post scriptum (o dictum) ovvero la catarsi giornalistica dello spettacolo. Perché l’attesa ogni anno snervante insistente ossessiva rende tutti quanti, melomani e non, degli appassionati nel senso etimologico del termine, e cioè afflitti da pathos; il che può consistere in qualsivoglia reazione emotiva, dal fastidio urticante all’entusiasmo bacchico. E allora sì che il dopo diventa catarsi, purificazione e sfogo che si compie attraverso il giudizio, sempre impietoso, frutto di una compiaciuta esegesi misuratissima e calibrata al millimetro.
Ebbene, ci piace di unirci alla schiera dei commentatori (molti dei quali, come noi, hanno assistito all’opera in televisione e non in teatro).
Ricapitolando: abbiamo visto Don Giovanni, dramma giocoso di Wolfango Amedeo Mozart salisburghese su libretto di Lorenzo Da Ponte quasi veneziano.
Cast stellare, almeno sulla carta, con qualche scricchiolio sulla scena. Regia molto attesa di Robert Carsen. Poche concessioni alla sensualità e alla sessualità, predomina l’idea del metateatro: la Scala nella Scala secondo un bel gioco di luci e di specchi.
Don G. è Peter Mattei, acclamato baritono che con Don Giovanni ci è nato, professionalmente parlando. Qui alla Scala è un dandy alla Oscar Wilde/Dorian Gray (cioè la versione fin de siècle del libertino), che si cambia d’abito ad ogni apparizione sulla scena e talvolta si cambia in scena, badando bene a non distogliere lo sguardo dallo specchio che lo ritrae aitante nella giacca da camera di un prezioso tessuto damascato. Nell’interpretazione di Carsen è lui, Don Giovanni, il regista dello spettacolo, colui che strappa (letteralmente) il sipario all’inizio dell’opera – scoprendo una grande lastra dall’immagine oscillante come fosse una bolla saponosa, che riflette nient’altro che il teatro stesso – e colui che la chiude, guardando fiero, con flemma sprezzante, fumando disinvoltamente una sigaretta, gli altri protagonisti sprofondare (con folle sorpresa dei tradizionalisti loggionisti scaligeri intransigenti) tra i fumi sulfurei, come poco prima era accaduto a lui stesso.
Leporello, servo di Don G., che secondo il libretto è il prototipo del servo, diventa, per il regista canadese, suo compare e un po’ consigliere
Si muove con passo disinvolto da seduttore sempre in cerca di nuove conquiste tra grandi pannelli che riproducono i panneggi del sipario, le quinte della Scala, trasportati e spostati dagli operatori, quelli veri, del teatro milanese. Delle porte si aprono e si chiudono nei suddetti pannelli, pressoché unico elemento scenico, da cui entrano o escono i personaggi. Leporello, servo di Don G., che secondo il libretto è il prototipo del servo, vile fifone ingenuamente intuitivo animato da uno spirito rivoluzionario ben poco efficace (vista la citata viltà), diventa, per il regista canadese, suo compare e un po’ consigliere. La gestualità disinvolta e orgogliosa di Bryn Terfel interpreta bene la visione di Carsen. Non eccellente la voce, in ritardo nell’aria celeberrima del catalogo, poco divertita e divertente.
Ecco, la scena del catalogo. Il picciol libro compilato con dedizione da Leporello non è un libro ma una parete sulla quale tanti segni indicano il numero di conquiste. Un po’ come fanno i carcerati nelle loro celle per contare i giorni mancanti all’agognata libertà. E mentre Leporello si perde in dettagli, Donna Elvira (Barbara Frittoli), in sexy sottoveste di pizzo e raso praticamente per tutta la durata dello spettacolo, si torce per disperazione in gesti caricati e quindi caricaturali: vorrebbe a tutti i costi riconquistare Don G. e ascolta con disapprovazione il racconto di Leporello quando il ritratto muliebre non corrisponde al suo. La voce in generale è parecchio nervosa affannosa sospirosa, quella dell’amante cornuta che non si rassegna all’idea di una possibile redenzione dell’amato.
A proposito di cornuti, seconda coppia per importanza, dopo il sodalizio Leporello-Don G., è quella Donna Anna (Anna Netrebko) e Don Ottavio (Giuseppe Filianoti). Dopo l’assassinio del padre di lei, il reverendo Commendatore (Kwangchul Youn), sono in scena sempre di nero vestiti, simbolo di lutto perenne; Don Ottavio/Filianoti è un po’ mannequin: pallidissimo, rigido anche se elegante nell’abito, non sembra esser molto toccato dalla pena dell’amata (che d’altra parte ha beccato a giocare nel lettone con Don G. nella prima scena). E purtroppo la voce è molto incerta quasi paurosa, nonostante il bel timbro che sempre gli si riconosce. Peccato, perché il personaggio di Don Ottavio è uno dei più toccanti nell’immaginazione musicale di Mozart.
Donn’Anna Netrebko è all’altezza del ruolo vocale e interpretativo, con piccole sbavature solo nel finale dell’opera. Il personaggio rimane cupo, severo ma attratto, nemmeno poi tanto segretamente, dal sempre lui tombeur Don G., che accarezza dolcemente pure in presenza del promesso sposo poco prima di avere la brillante illuminazione a proposito dell’uccisore del padre, di cui si mettono in scena i funerali proprio appena dopo il matrimonio di Masetto (Štefan Kocán) e Zerlina (Anna Prohaska).
Appunto, la terza coppia: gli sposini che sfortunatamente incrociano il cammino del seduttore, ma rimediano comunque un invito festoso. Scurissima la voce di lui, Masetto, corretta ma non brillante e poco civettuola quella di lei, Zerlina; entrambi non agiscono granché sulla scena a parte qualche rotolamento amoroso in corrispondenza delle due arie della Zerlinetta gentil.
Cose notevoli: il secondo atto e il Finale. A partire dal momento in cui Don G. e Leporello si scambiano l’abito e la persona, cioè la maschera, vediamo di fatto il dissoluto (non ancora punito) assistere allo spettacolo comodamente seduto in poltrona, almeno per le scene che non lo vedono protagonista, e in compagnia della giovane e ignuda cameriera di Donn’Elvira; personaggio questo che solitamente rimane immaginato, altra conquista tra le migliaia, e che qui diventa vera carne (Carsen non vuole smentirsi)!
Come dire: Don Giovanni spettatore del suo spettacolo e di se stesso. Una schizofrenia interessante, che farà parlare gli psicologi.
Infine, la scena terribile della cena infernale, dello sprofondamento per il mancato pentimento. Il Commendatore (già apparso tra il pubblico del palchissimo realissimo, abitato per ieri sera da Napolitano, Monti, Pisapia etc etc. nella scena dell’invito a cena) resuscita letteralmente da una bara disposta nel centro del palco e con tanto di arcani vapori che anticipano l’imminente inghiottimento del suo assassino. Che puntualmente viene inabissato tra le urla di lui e di Leporello. Segue il sestetto moralista, sul quale evidentemente Carsen ha qualcosa da dire se decide di sprofondare tutti quanti in conclusione. Mentre Don G. è sempre lì che li guarda e ci guarda, fuggito dall’inferno, resuscitato per capovolgere il finale dei buoni, per dirci, forse, che non è vero che «Questo è il fin di chi fa mal!/ E de’perfidi la morte/ Alla vita è sempre ugual!».
Uno spettacolo sorprendentemente molto applaudito, perché non ha granché scandalizzato e nemmeno tanto colpito probabilmente. Solo qualche cenno di disapprovazione per la direzione di Daniel Barenboim, che come sempre sceglie tempi larghi, meditati ma intensi ed espressivi, tragici o giocosi quanto basta, senza esasperazioni o sofisticazioni ridondanti.
Sipario. Fine.
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Bellissimo commento, molto ben congegnato e con un gran ritmo. Complimenti! Ho letto già diverse recensioni di questa molto attesa “prima” ma non ho trovato nulla su tre punti che invece mi parevano degni d’indagine e che mi hanno particolarmente colpito: la coppia masetto-zerlina è l’unica di bianco vestita, come a rappresentare l’innocenza nella tragica commedia, le uniche “povere” vittime del Don G, gli unici che si amano davvero, quando poi si sa che Masetto uno stinco di santo non lo è, lo vorrebbe addirittura “farlo in cento brani” e la bella Zerlina si concederebbe al seduttore se non fosse per l’intervento – prodigo? – di Donna Elvira. Al contrario, gli altri sono tutti vestiti di nero, come a rappresentare – ognuno in modo differente- una colpa da espiare. Poi, nel Finale, il genio di Carsen che fa puntare in segno di ammonimento verso la platea, gli indici dei falsi moralisti, vittime esse stesse del cavalier DonG. che infatti se la ride dall’aldilà e addirittura getta la sigaretta sprezzante mentre sprofondano anch’essi agli inferi. Terzo aspetto, forse la più grande pecca di questa rappresentazione, la mancanza totale di umorismo: da quello sguaiato di DonG a quello ironico ed al tempo stesso tremebondo di Leporello, nonchè la totale assenza del grottesco nella scena della cena, dove addirittura il tutto ha un che di psicoanalitico e che si svolge su tre diversi piani psicologici: il Commendatore, altèro ed immarcescibile nella sua statuarietà (l’ultraterreno), ad un livello sotto il dissoluto senza paura nemmeno della morte (l’umano, il vero eroe di questo dramma) ed ancora sotto, sopraffatto dagli eventi, il servo vile (il sub-umano). Bruttissima infine la scena dell’invito a cena con la (finta) statua del commendatore riflessa nello specchio dal palco reale: vedere le facce dei Presidenti mi è sembrato totalmente fuori contesto e mi ha fatto un effetto al limite del comico!