L’opera di Verdi al Regio: stranezze di regia, ma va decollando verso il pathos del finale
di Attilio Piovano
La scorsa stagione il torinese Teatro Regio bandì un concorso per l’allestimento di uno spettacolo (La Creatività all’Opera); molti e per lo più giovani furono i partecipanti. In una conferenza stampa vennero annunciati i vincitori e fu inoltre possibile intuire in quella sede la quantità (e qualità) dei molti elaborati valutati da una commissione scientifico-artistica. La ricaduta sul piano pratico fu la messa in scena di «Rigoletto» che nuovamente viene ora riproposto, inserito in cartellone per questa stagione 2011/2012: quattro sole recite, ieri, mercoledì 14 (con tanto di diretta radiofonica che alcuni lettori forse avranno ascoltato) e poi ancora venerdì 16, domenica 18 e martedì 20 marzo. Al di là dunque della valutazione specifica circa regia scene e costumi di cui diremo tra poco, preme mettere in evidenza la coraggiosa e lungimirante portata dell’iniziativa del Regio. Fabio Banfo ha firmato una regia piuttosto tradizionale, occorre ammetterlo. Così come tradizionali (e mediamente un po’ troppo cupe, al pari delle luci mediamente improntate ad una certa ovvietà) sono le scene di Luca Ghirardosi giocate su grandi ‘armadi’, per così dire, che di volta in volta si dispongono trasversalmente o longitudinalmente per definire gli spazi scenici. Validi i costumi di Valentina Caspani (l’intero team vincitore del concorso era formato inoltre da Claudia Brambilla, Chiara Marchetti ed Elena Rossi), con uno studio attento – così hanno fatto notare – su tessuti e cromie. Però, perché porre in scena cortigiane che paiono più zingarelle? E perché farle muovere nel primo atto come popolane che danzano la tarantella con gesti corrivi e pur prevedibili? Siamo pur sempre a Palazzo Ducale, suvvia.
Un po’ troppo didascalica, poi, ed invero accademica l’idea di far mimare la cattura di Gilda già durante le note del Preludio
Tra el altre ‘stranezze’ della regia, perché mai collocare Gilda, novella arboricola, appollaiata su un albero stilizzato e scheletrito ‘fuori’ casa, facendole cantare «Caro nome» mentre bamboleggia con una palla come se fosse la Vispa Teresa? Già lo scorso anno in molti se lo domandavano senza darsi una risposta: e ancora non l’abbiamo trovata. E poi: Il Duca di mantova trova ospitalità in casa di Sparafucile e Maddalena raggiungendo la stanza che in realtà è dietro ad una tenda, come il retrobottega di un artigiano. Boh, per carità ci può stare, ma si poteva far di meglio e lo stesso Sparafucile intento ad affilare coltelli e scagliarli poi con gesto truculento su un ceppo, pare più un macellaio di provincia che un sicario di professione, e per di più con tanto di grembiale bianco chiazzato di sangue. E per fortuna che è stato ‘corretto’ il curioso gesto dello scorso anno di far collocare Gilda in una cassapanca: ora viene deposta, approssimandosi un po’ di più al libretto ed alle didascalie, se non proprio in un sacco, quanto meno in un telo e lenzuolo che funziona meglio. Un po’ di macchiettismi e gesti gratuiti nella folla dei cortigiani (taluno inveisce col braccio come se fosse un automobilista al semaforo, pronto all’aggressione verbale di un altro automobilista, vien difficile credere che i cortigiani immaginati da Piave sulla scorta di Victor Hugo si atteggiassero in tal guisa). Altra bizzarria: Giovanna costantemente in scena durante il duetto di padre e figlia (Scena IX) quando in realtà il libretto, se non andiamo errando, la evoca solamente nella scena successiva, o no? Un po’ troppo didascalica, poi, ed invero accademica l’idea di far mimare la cattura di Gilda già durante le note del Preludio (la responsabilità dei movimenti coreografici non sempre convincenti è di Anna maria Bruzzese): di fatto fa torto all’intelligenza del pubblico. Detto tutto questo, se in apertura dell’Atto I lo spettacolo lascia un poco perplessi in seguito va però decollando e – occorre ammetterlo – nel terz’atto regala momenti gravidi di vero e intenso pathos.
Merito delle voci, certo, e così pure della direzione del giovanissimo talento Daniele Rustioni dal gesto chiaro ed espressivo. Una direzione sciolta e scorrevole che solamente in apertura è parsa un poco incerta (l’attacco lo avremmo voluto più fatalistico ed inesorabile), ma poi si è consolidata: una direzione attenta ai dettagli timbrici della partitura, attenta alle dinamiche, agli equilibri tra voci e orchestra (molto bene l’Orchestra del Regio, da rilevare le valide prime parti, fiati specialmente ma anche gli archi, specie la sezione dei violoncelli nel celebre passo quartettistico dai colori ambrati), una direzione precisa, coinvolgente ed esuberante quella di Rustioni (nel senso migliore del termine) che di fatto ha conseguito buoni risultati complessivi.
Le voci: il tenore Piero Pretti (nei panni del Duca di Mantova) ha sbozzato il personaggio senza risparmiarsi: tecnica sicura, squillo possente, presenza scenica, buona dizione, voce in complesso aitante, ha delineato un Duca di Mantova più appassionato ed innamorato che non sul versante del cinismo. «Questa o quella» e così pure l’inossidabile «La donna è mobile» hanno convinto appieno, pagine affrontate con giusta baldanza e gesto corrusco, ma senza inutili eccessi, si direbbe anche con eleganza e garbo, insomma senza qui gigionismi vocali e quelle intemperanze cui tanti tenori (pur celebri) purtroppo indulgono, cedendo alle lusinghe, ovvero per captatio benevolentiae del pubblico. E il pubblico ripaga Pretti con applausi convinti (e meritati). Il baritono Giovanni Meoni, pur avendo una voce che taluno ritiene, per così dire, non verdiana al 100% (in effetti lo si vorrebbe timbricamente ancora più profondo e poi terribile, spaventevole nella sua sete di vendetta come richiede il personaggio, dalla cieca disperazione, sia sul piano scenico, sia su quello vocale) ha però impersonato un Rigoletto appassionato e cupo, ma anche tenero e delicato nei confronti dell’adorata figlia e così i momenti toccanti (nel duetto finale con Gilda ad esempio) non mancano. All’ottima Désirée Rancatore il ruolo di Gilda: cantante di primo livello, con bei suoni filati, delicati pianissimi, eleganza e appropriatezza di stile. Solo, quando forza, rischia qualche asprezza timbrica. In «Caro nome» ha regalato istanti mozzafiato, ben sostenuta dalla doverosa souplesse dell’orchestra (e il merito è di Rustioni). Completano il cast Alessandro Guerzoni (Sparafucile), Irini Karaiannii dal timbro scuro (Maddalena) Ziyan Atfeh (nel ruolo di Monterone) e ancora Armando Gabba (Marullo) e Matthew Pena (Matteo Borsa).
Da ultimo, davvero ottimo (come sempre) il coro del Regio istruito da Claudio Fenoglio (sommesso e poi con le giuste impennate dinamiche in «Zitti zitti», senza quegli eccessi che talora involgariscono la pagina: basta nulla e facilmente fa flop cedendo all’effettismo provinciale, e invece tutto qui è posto, con ottima resa ed innegabile efficacia drammatica).
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