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Jakob Lenz, lo status della pazzia

di Giampiero Cane
9 Marzo 2015
in XX e XXI
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Home XX e XXI
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(foto © Lorenzo Gaudenzi)

Dapprima a Lugo a fine marzo e dal 12 aprile a Bologna l’allestimento dell’opera di Wolfgang Rihm coprodotto dai due teatri su una struttura nata a Macerata anni fa in seguito a un seminario di Henning Brockhaus


di Giampiero Cane


È un testo ancora piuttosto raro da noi, a una trentina d’anni dalla prima berlinese, ma frequente sulle scene di quell’Europa dove il si forse non suona dolce, ma lo fa con una varietà di musiche da far invidia a noi, praticamente obbligati a vivere musicalmente nell’Ottocento.

Il Lenz che dà il titolo all’opera è uno scrittore vissuto nel Settecento, è considerato un autore fondamentale per lo Sturm und Drang, il primo romanticismo, ma di suo non va più in scena nulla, anche se Die Soldaten, considerato il suo dramma più significativo, è stato rimaneggiato in questo secolo da Heimar Kipphardt che ne ha tratto un libretto per Alois Zimmermann che, con una musica eclettica, ma organizzata in maniera robusta nella lezione delle forme classiche, ne ha fatto il suo capolavoro.

Per la nostra memoria, però, più che a queste forme, il nome di Lenz è legato a quello di Büchner, che per il suo teatro s’è probabilmente avvalso della sua lezione che rompeva i vincoli aristotelici, ma che ha anche scritto un racconto su Jakob Lenz, che era morto un po’ più di quarant’anni prima che questo testo, che anticipa di due anni il più noto Woyzeck, venisse alla luce (1835).

A Lugo Jakob Lenz ha avuto una rappresentazione applauditissima dal pubblico di un piccolo teatro, 400 posti circa. A Bologna, si vedrà, dato che il Comunale è “ostaggio” degli abbonati che, nella così detta “dotta” (ma sarà un millantato epiteto al pari di quel che s’usa per esempio in Parlamento), alle musiche del secondo Dopoguerra hanno sempre risposto negativamente, come hanno fatto per esempio, anche il 3 aprile, disertando al 50% circa un concerto di Lonquich che iniziava con uno dei pezzi per pianoforte di Stockhausen (recensione di Andrea Bellini su questo sito, ndr). Piuttosto di sorbirsi questo han rinunciato anche al II libro dei preludi di Debussy e alla Sonata in sib maggiore di Schubert.

A Lugo, dove il Teatro non ha abbonati, ogni spettacolo cerca il proprio pubblico e le cose cambiano un po’. Non solo per questo però, perché Lugo non ha nemmeno masse stabili, orchestre, coro, falegnameria, sartoria, balletto che semplicemente con il loro esserci giocano a favore di quel che l’Opera fu.

Eppure questo Jakob Lenz andrebbe visto da chi ama il teatro musicale. È un testo duro, non ottimista, il pazzo in scena sragiona, ma soffre. Chi sfiora il suo mondo non trova nell’accoglienza solidità alcuna: tutto è precario, fallace in quel regno di amare ombre e travolgenti delusioni. Le quali qui sono già state e dunque in scena non c’è un iter alla pazzia, ma il suo status turbolento, improvviso, contraddittorio, incomprensibile.

L’orchestra non è ampia, alcune voci attorniano Jakob, una sola gli è particolarmente amica, quella del prete che lo ospita, ma nemmeno il buon Oberlin può granché e sarà anzi lui nel finale di quest’allestimento a fargli indossare la camicia di forza, senza resistenza alcuna del mentecatto.

Sebbene Lenz sia ricordato tra gli iniziatori dello Sturm und Drang, in quest’opera così come nel racconto di Büchner tutto è soltanto doloroso. Per il povero Jakob anche le capacità di fantasticare ormai sono perdute e un esasperante dolore è ciò che subentra a momenti d’inebetita calma.

L’allestimento attuale nacque qualche anno fa a Macerata con la regia di quel Brockhaus che qui lo riallestisce. Era il frutto di un seminario di studi con allievi dell’Accademia di Belle arti, così mi sembra almeno, e data l’occasione ebbe un pubblico estraneo al teatro musicale. Anche lì fu un grande successo, grazie a quel pubblico anomalo. C’è proprio da dirsi che l’opera deve liberarsi dai suoi fan (ma la cosa sarebbe auspicabile in molti campi).

Non direi che il cast attuale ripeta quello di Macerata: Tomas Mȍwes, il baritono protagonista, è proprio bravo nell’interpretare il terribile disagio del personaggio. In scena tutto è imperniato su di lui; coprotagonista gli è la musica di Rhim, mai d’accompagnamento, ma nemmeno enfasi di quel che vediamo. Quella di Lenz non è una follia teatralmente educata, come nella tradizione delle Lucie, delle black ladies del teatro operistico, e la musica tenta di essere l’emozione del personaggio, dà immagine sonora a un territorio ignoto, irragionevole. La conduce efficacemente Marco Angius, forse nell’esasperazione di non avere nemmeno un pertugio lirico. Nella scena di Jakob Lenz, a fianco del protagonista ci sono Oberlin, un prete svizzero, baritono, e Kaufmann, un amico di Jakob, tenore; danno loro voce Markus Hollop e Daniel Kirch. Nella scena agiscono personaggi anonimi, ombre, presenze solo fisiche o, 6 di esse, anche vocali. Sono Anna Maria Serra, Paola Natale, Alena Sautier, Romina Boscolo, Gabriele Ribis e Christian Favarelli, la cui presenza sonora non è mai di contorno, anche se non ci sono parti solistiche. Dal suono d’insieme spuntano altre ombre, che sono memorie di musiche tedesche, ombre di Schumann, di Haydn, ma soprattutto di un suono che rimanda ai canti luterani.

© Riproduzione riservata

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Giampiero Cane

Giampiero Cane

Dagli anni Sessanta critico musicale per quotidiani e riviste, collabora ancora oggi con il manifesto. Ha insegnato nell’Università di Bologna, avendo la cattedra di Civiltà musicale afro americana, ma coprendo per sei anni anche l’insegnamento di Storia della musica moderna e contemporanea. È autore di alcuni libri, tra io quali si possono ricordare Tre deformazioni dolorose: Sade, Rossini, Leopardi, Canto nero (sul free jazz), MonkCage (sul Novecento musicale Usa), e Confusa-mente il Novecento.

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