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Rilettura contemporanea della Remède de Fortune di Guillaume de Machaut: parlare il linguaggio del presente fedeli all’idea originale. In scena al festival Milano Arte Musica l’ensemble Sentieri Selvaggi con la voce narrante di Fanny Ardant
di Cecilia Malatesta
I l bulbo oculare sullo schermo sembra galleggiare in un grigiastro liquido primordiale mentre un ininterrotto gorgoglìo ha accolto ieri lo spettatore nella sala del Teatro Strehler: il Remède de Fortune di Guillaume de Machaut, dopo seicentosettant’anni, è approdato a Milano.
La messa in scena del trattato allegorico sull’Amore e la Fortuna proposta da Filippo Del Corno non vuole aggiungere nulla a quanto non sia già nel testo medievale: la commistione di narrativa e didattica, le sette liriche musicate che si incastonano tra i quattromila versi del poema come tappe di un viaggio di formazione e le affascinanti miniature che ornano il manoscritto rendono l’opera di Machaut di per sé fortemente “multimediale”. Questa la dimensione che vuole recuperare Il Rimedio della Fortuna, proponendo un concerto-performance-installazione che parli il linguaggio del presente, ma resti fedele all’idea del progetto originale: così, i profili melodici monodici e polifonici sono stati conservati pur in una vesta contemporanea come l’attività musicale dell’ensemble Sentieri Selvaggi (diretto da Carlo Boccadoro) richiede, i rapidi versi in francese antico vòlti dall’autore Alex Cremonesi in una prosa italiana affidata alla narrazione di Fanny Ardant, ed i testi dei brani musicali – affidati alle voci barocche di Mirko Guadagnini e Chiharu Kubu – tradotti in una forma che li avvicina a quelli della canzone pop. L’iconografia non è più quella di castelli medievali, di loci amoeni, di amanti e di dame cortesi, ma diviene una performance visuale che il duo Masbedo conduce sul palco in modo estemporaneo, manipolando oggetti, proiettando murene verdi che sguazzano sullo schermo, mani intrecciate e teschi di gesso sporcati di vernice rossa, abiti da sposa dilaniati e modellini plastici percorsi da scariche elettriche.
La chiave di lettura si perde in una scelta di messa in scena che non sembra trovare una direzione univoca, abbozzando suggerimenti ma rendendosi poco coraggiosa nel complesso, lasciando tutto in una fumosa e media tonalità di grigi: così, mentre il visual segue la segmentazione in sette quadri scegliendo per ognuno un oggetto, un simbolo o una suggestione, – la cui giustificazione appare a tratti davvero inafferrabile non riuscendo a “raccontarci” una storia – la musica galleggia in un limbo omogeneo attraverso tutte le tappe, con un piede nell’antichità e l’altro nel Novecento. Se uno dei tratti forse più affascinanti dell’opera di Machaut risiede nella scelta di offrire tutte le forme liriche in uso all’epoca – lai, ballade, chanson, virelay, rondelet – e di musicarle secondo un percorso che si muove dalla monodia dei trovatori alle formes fixes dell’ars nova, – dal canto dell’amante sfiduciato, allo sposalizio con Speranza e Amore – è un peccato che l’intento avanzato da Del Corno di trasposizione contemporanea di questo percorso stilistico non riesca ad emergere e a farsi elemento strutturale.
Ai pochi che lo conoscono, del testo di Machaut rimane qualche eco, il potere salvifico della Speranza – una Fanny Ardant bellissima e fascinosa nonostante qualche scivolone sulla pronuncia – che qui non si limita a comparire nel quadro centrale, ma accompagna Amante e pubblico per tutta la durata della performance. Chi non sa a cosa si faccia riferimento gode del fascino timbrico di un’orchestrazione certamente riuscita, della vocalità di due bravi interpreti, della seduzione poetica che il testo italiano riesce a restituire, ma, singolare contrappasso per un’opera didascalica, probabilmente non ne comprende la vera essenza.
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