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Contrafactum Stessa musica, altre le parole
Pillole di Storia della musica/2 a cura di Laura Bigi
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Se potessero discorrere amabilmente passeggiando in un parco, probabilmente Vivaldi, Beethoven, Janáček e Messiaen dibatterebbero su come si debba mettere in musica in modo efficace il canto dei pennuti
di Riccardo Rocca
L o scorso 27 aprile ricorrevano precisamente vent’anni dalla morte di Olivier Messiaen (1908–1992). La Ludwig-Maximilians-Universität di Monaco di Baviera ha pensato di omaggiare il compositore francese presentando la prima traduzione tedesca del Traité de rythme, de couleur et d’ornithologie (1949–1992) appena pubblicata dalla casa editrice Georg Olms di Hildesheim. Con Kent Nagano, ospite d’onore dell’incontro, i curatori hanno ricordato, non senza numerosi aneddoti, la figura del maestro francese e alcuni dei suoi maggiori interessi, tra i quali spiccava la passione per il canto degli uccelli.
Il rapporto dei compositori con la natura e gli animali potrebbe essere una prospettiva tematica sotto cui ripercorrere tutta la storia della musica. Se potessero discorrere amabilmente passeggiando in un parco, probabilmente Vivaldi (1678–1741), Beethoven (1770 – 1827), Janáček (1854 – 1928) e Messiaen dibatterebbero su come si debba mettere in musica in modo efficace il canto dei pennuti. Che cosa direbbero Vivaldi a difesa delle proprie Quattro stagioni (1725) o del concerto per flauto e archi Il cardellino RV 428 (1728) e Beethoven a riguardo della propria VI Sinfonia Pastorale (1808) è difficile dirlo – a quei tempi i compositori scrivevano molto e dichiaravano poco. Una cosa è invece più facilmente immaginabile: Janáček e Messiaen si azzufferebbero su chi dei due, rispettivamente ne La piccola volpe astuta (1924) e in San Francesco d’Assisi (1983), abbia saputo riproporre nel modo più realistico possibile il cinguettare dei volatili, captandone e riproducendone i singolari intervalli e le complesse combinazioni ritmiche.
Ma qual è il rapporto dell’arte, della musica nel nostro caso, con la verità del reale?
Ma qual è il rapporto dell’arte, della musica nel nostro caso, con la verità del reale? Deve ansiosamente tendere ad un utopistico rapporto di perfetta imitazione oppure è proprio sul crinale di questa disparità che si rivelano il genio e la personalità dei diversi compositori? Ogni opera d’arte, sia essa data secondo le convenzioni settecentesche di Vivaldi o le sperimentazioni di Messiaen, non può essere altro che una rielaborazione delle impressioni del mondo, filtrate e riorganizzate secondo le personali intuizioni dell’artista. Le prerogative di verità appartengono all’arte non tanto nella misura in cui essa riesce a riprodurre l’oggettività del reale – avrebbe in tal caso ben misera e pressoché inutile funzione –, bensì nel momento in cui essa riesce ad intercettare le vibrazioni universali dell’umano. A loro modo e nel loro tempo, i quattro compositori di cui sopra sembrano esserci riusciti molto bene.
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