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Il secondo teatro lirico più importante di Francia apre la nuova stagione con Verdi. In scena il potere, anche quello finanziario, e il movimento pacifico di resistenza a Wall Street. La nostra recensione e le dichiarazioni del regista Ivo van Hove
di Simeone Pozzini
H a le idee chiare il regista belga Ivo van Hove. L’opera deve parlare le immagini del proprio tempo. Se ci si pensa, questo può essere il senso di ciò che consideriamo “classico”. Far aderire un improvviso disegno di carta trasparente al solco immutabile delle trame. Macbeth, nella verdiana versione per il Théâtre Lyrique del 1865 (ma senza il ballo nel terzo atto), ha inaugurato l’altro giorno la nuova stagione dell’Opéra di Lione, tutta incentrata quest’anno sul potere e i suoi risvolti: in cartellone anche due titoli di rara esecuzione quali Il Prigioniero di Dallapiccola e l’Imperatore d’Atlantide di Ullmann. Si può mettere in scena il potere finanziario e la resistenza pacifica di Occupy, pensare che la speculazione uccide un po’ di più tutti i giorni, forse vedere nell’assassinio di Duncano la morte del proprio capo, in Banco assassinato il proprio compagno di scrivania. Ma non bastano i travestimenti della quotidianità, giacche e cravatte ai personaggi, cellulari e ipad in scena. Insomma, la tecnologia di tutti i giorni.
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L’introspezione di Ivo van Hove è più profonda e si fa tutt’uno con i numerosi registri psicologici e narrativi della tragedia. Una delle «più grandi creazioni umane!» scriveva Verdi al librettista Piave. Già nel Preludio gesto scenico e musica sono ottimamente coordinati. Perché si sa, nel Macbeth più che altrove la recitazione dei cantanti è fondamentale. In scena, quindi, due luoghi, tra realtà e proiezioni visive: il palcoscenico è un open space circondato da monitor, sullo sfondo le proiezioni portano a compimento alcuni elementi teatrali, tra i quali l’assassinio di Duncano.
Ma suggeriscono anche attraverso la visione di scenari urbani una lettura che è sempre doppia, articolata, integrante. Si finisce per sentirsi paradossalmente a casa, e lo scopo teatrale è raggiunto. Le streghe indossano tailleur e arrivano
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in gruppo come armata seducente d’ufficio, si mettono il rossetto grossolanamente intorno alle labbra.
L’impatto è impressionante non c’è che dire. Bene cast, orchestra e coro dell’Opéra (ottima, intonatissima e granitica la sezione fiati) e direzione rigorosa e analitica di Kazushi Ono
Ma nulla è provocatorio. Semmai arriva tutto il gelo trasfigurato nei numeri della speculazione, divenuti simboli, e anche questi proiettati. In stile Matrix. I fiati improvvisamente imperano? Ed ecco un’azione in palcoscenico.
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L’impatto è impressionante non c’è che dire. Bene cast, orchestra e coro dell’Opéra (ottima, intonatissima e granitica la sezione fiati) e direzione rigorosa e analitica di Kazushi Ono. Il solido e possente Evez Abdulla è un Macbeth che non muore in scena, bene Riccardo Zanellato, l’unico italiano della produzione, nell’interpretazione di Banco. Iano Tamar è una convincente Lady Macbeth, tutta georgiana in alcuni momenti della dizione. Mdytro Popov interpreta il ruolo di Macduff per la prima volta: inizia un po’ timidamente ma alla fine convince e conquista nell’aria “O figli, o figli miei!”. E si arriva alla fatal domanda, Ove s’è fitto l’usurpator? chiede Malcolm. Colà da me trafitto, risponde Macduff. L’inno di Vittoria, ci dice van Hove «mi sembrava molto difficile; è un finale aperto, non rivouzionario in senso socialista ma nel senso della Rivoluzione di velluto. Per me questo è il senso del finale dell’opera».
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«Dal Macbeth di Verdi può scaturire una riflessione su quale sia il vero potere oggigiorno. Credo che oggi si sia passati dal potere politico al potere economico. Prendiamo per esempio Berlusconi: la sua ascesa non è dovuta alle sue idee politiche, ma al suo potere economico. Non so se sia un bene o un male, ma credo che oggi sia così. Macbeth è mosso dal desiderio del denaro; con il denaro può regnare in tutto il mondo. In Verdi ci sono scene che non ci sono in Shakespeare: per esempio l’esordio del dramma, molto breve nel testo dello scrittore inglese. Lady Macbeth, poi, non è in Verdi soltanto la manipolatrice determinata che conosciamo, ma ha anche una sua fragilità. È veramente donna, io credo. Veramente umana. In una scena molto importante per la mia regia ho lasciato Lady Macbeth in scena anche durante l’aria successiva di Macbeth, facendo una commistione fra le due scene. Il matrimonio, la relazione fra i due, a parte il discorso economico che facevamo, è molto importante per me. È la storia secondaria della trama. Il matrimonio tra i due funziona, ed è per questo che la decisione terribile dell’assassinio non viene presa da uno solo dei due, ma dai due insieme. Si tratta di una storia sul matrimonio, oltre che di una storia sul potere. La terza cosa interessante che trovo in Verdi e che in Shakespeare non è così determinante, è la dimensione delle vittime. Pensiamo ad esempio al bellissimo coro Patria oppressa: non esiste un passaggio così in Shakespeare. È il momento in cui il popolo denuncia la sua impossibilità ad accettare ancora ciò che Macbeth fa; è la forza che fa da contraltare a Macbeth. Quindi mi sono chiesto che cosa fosse, nel mondo in cui viviamo oggi, questa forza bilanciatrice del potere. E l’ho individuata nel movimento di Occupy Wall Street. Quello che trovo interessante, in questo movimento, è la componente non violenta. Loro stanno lì, in molte piazze del mondo, senza dire “Vogliamo questo o quello”; per me è un movimento quasi filosofico, hanno creato un momento di condivisione e di riflessione».
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