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Opera • Il capolavoro di Wilde/Strauss in un allestimento ispirato al pittore della Secessione. Si sono distinte la protagonista di Camilla Nylund e la Herodias di Michaela Schuster
di Francesco Lora
Nell’allestimento scenico della Staatsoper di Vienna, la Salome di Richard Strauss è un omaggio a Gustav Klimt: se Boleslaw Barlog firma una regia fedele alla didascalia, le scene e i costumi di Jürgen Rose citano il pittore viennese negli sgargianti accostamenti cromatici spruzzati d’oro, nel colossale scoscendere di alti gradoni dipinti e nel sontuoso od onirico ricadere dei tessuti sui corpi dei cantanti. Lo spettacolo, che ha molte primavere sulle spalle, mostra i segni del tempo in qualche scolorimento o sgualcitura, ma non certo nell’idea di fondo: esso fa tutt’uno con l’aspetto e la cultura della capitale austriaca, già sede della Secessione; calza come un guanto al testo di Oscar Wilde tinteggiato da Strauss; coincide infine con l’esuberanza, lo sfarzo e il caleidoscopio timbrico dell’Orchestra della Staatsoper, capofila delle interpretazioni straussiane secondo l’inossidabile tradizione viennese. Nelle recite dell’11, 15 e 18 febbraio, per la verità, il direttore Peter Schneider ha faticato a domare la grande compagine sinfonica, la quale ha sfogato le proprie sezioni con ostentazione selvaggia: splendide sonorità da ogni settore del golfo mistico, cioè, senza però pervenire all’unità di intenzioni, né tantomeno al rispetto di precise volontà direttoriali; a Vienna, si sa, con poche eccezioni, è l’orchestra a decidere chi comanda e quando. All’ascoltatore, pur sempre stordito dall’ammirazione, rimane un retrogusto amarognolo: nelle recite del maggio scorso, sotto la bacchetta di Ulf Schirmer, un’orchestra più disciplinata si era coperta di gloria ancor maggiore, facendo gridare al miracolo.
Quando più, quando meno: alla Staatsoper la Salome è in cartellone tutti gli anni o quasi, e l’avvicendamento di diversi interpreti in uno stesso allestimento è inevitabile, vivificante, avvincente. A questo giro, la parte protagonistica è spettata alla finlandese Camilla Nylund, soprano di sicuro riferimento nel repertorio straussiano: la voce è chiara, svettante e radiosa, per nulla intimorita dalle asperità della partitura; e non vi è esitazione, da parte dell’attrice, nell’affrontare di persona e con onore la “Danza dei sette veli” (contro l’uso di ricorrere a una ballerina come controfigura). Finita la Danza, la Nylund dà il colpo decisivo alla propria lettura del personaggio: questa Salome ipocritamente adolescenziale ed eterea, che accoglie madre e Tetrarca aggiustandosi in posa da fanciulla sognante e innocente, alla resa dei conti con Herodes rivela le sue pretese con tremenda rabbia, inaugurando solo qui la ferocia del registro di petto e una gestualità che graffia il palcoscenico. Non è da meno la presenza di Michaela Schuster come Herodias, cioè di un mezzosoprano tra i più in vista dell’area tedesca – sarà Kundry nel prossimo Parsifal di Wagner a Salisburgo, Festival di Pasqua – in una parte di caratterista poco spesso premiata da tanto lusso; si rileva innanzitutto la floridezza del materiale vocale in fatto di rotondità e potenza, e si gode poi di un accento drammatico ove non si perde una parola né un’inflessione: una simbiosi rara e degna di applauso. Un esito comparabile si sarebbe forse potuto ritrovare nello Herodes di Thomas Moser: il suo forfait ha invece lasciato il campo a Gerhard Siegel, che persegue una declinazione istrionica e grottesca della parte senza per questo macchiare con suoni chiocci una sana vocalità.
Non entusiasma, al contrario, lo Jochanaan di James Rutherford, basso-baritono peraltro appena impiegato a Vienna come Hans Sachs nei Meistersinger wagneriani, e con risultato altrettanto parziale e interlocutorio. La voce, più grossa che risonante, il timbro, tanto omogeneo quanto sfocato, un accento generico e un aspetto fisico da frate gaudente rendono poco credibili i suoi moniti profetici, i quali dovrebbero tuonare con altro peso, incisività e autorevolezza. Validi nella loro stilizzazione sono infine Carlos Osuna come Narraboth e Juliette Mars come Paggio, mentre nell’innumerevole comprimariato si ritrovano i migliori nomi in servizio alla Staatsoper per le seconde parti: Herwig Pecoraro, Jinxu Xiahou, Benedikt Kobel, Wolfram Igor Derntl e Walter Fink per il quintetto dei Giudei; Janusz Monarcha e Nikolay Borchev per il duetto dei Nazareni; Alfred Šramek e Il Hong per quello dei Soldati; Jens Musger e Roland Winkler, in ultimo luogo, per l’Uomo di Cappadocia e lo Schiavo.
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