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Opera • Con la direzione d’orchestra di Gianandrea Noseda, una pregevole compagnia di canto dominata da Svetla Vassileva e la regia accurata – anche se per certi versi discutibile – di Kasper Holten, il capolavoro teatrale di Čajkovskij è tornato al Teatro Regio dopo 15 anni
di Attilio Piovano
E vgenij Onegin: in assoluto il capolavoro teatrale di Čajkovskij, partitura in tre atti e sette quadri di indicibile bellezza dalla solida drammaturgia, ispirata alla tragica vicenda narrata nell’omonimo poema di Puškin (libretto bellissimo di Čajkovskij stesso e Konstantin Šilovskij): partitura fitta di finezze di introspezione psicologica, una strumentazione a dir poco perfetta, un climax emozionale collocato esattamente nel punto giusto e molto altro ancora. Al Teatro Regio di Torino l’ultima volta l’Onegin lo si era visto nel gennaio del 1998 (con Mirella Freni, Roberto Servile, Sergej Larin, Claudia Nicole Bandera e Nicolaj Ghiaurov). In precedenza a Torino era apparso nell’83 (in lingua italiana) con la regia di Bussotti e la direzione dell’indimenticabile Ahronovitch. In questi giorni il Regio ha riproposto la superba partitura in un nuovo allestimento in coproduzione con Royal Opera House Covent Garden e Opera Australia, per la direzione di Gianandrea Noseda e l’inconsueta regia di Kasper Holten.
Ottima la prova fornita dall’orchestra fin dall’apertura. Noseda ha molto opportunamente tenuto la mano sul freno per la prima parte, che conseguentemente s’è ammantata di colori per lo più cameristici, delicati e morbidi – l’esordio con il bamboleggiare di Tat’jana e Olga ed il nostalgico riflettere sulla gioventù della nutrice (ed anche l’irruzione di contadini e braccianti che festeggiano il raccolto reso con giusta misura) – salvo poi allentare le briglie a partire dalla fondamentale e determinante quarta scena: nella quale, inesorabile come il destino (quello stesso destino evocato nella fatalistica Quarta sinfonia in cui l’Onegin in più d’un punto pare rispecchiarsi), scoppia il dramma della gelosia e Lenskij sfida a duello Onegin. Da lì l’opera decolla per non arrestarsi più. Momenti indimenticabili già ci sono stati: e si tratta della lunga scena della lettera e della notte insonne di Tat’jana, poi l’incontro di Tat’jana e Onegin, il suo rifiuto che la turba e la sconvolge, quindi la festa, un crogiolo di sensazioni contrastanti: e c’è spazio per la canzone dell’anziano e risibile Triquet, per il ballo, le futilità delle convenzioni e per le effusioni sentimentali, ma anche per il dirompente conflagrare della gelosia. Poi (scena V) la campagna algida all’alba, le riflessioni amare di Lenskij, il sopraggiungere di Onegin e l’esito ferale del duello.
Tutto potrebbe finire lì. E invece no: la genialità della drammaturgia dell’Onegin sta nel fatto che l’opera prosegue ben oltre e ci narra di una Tat’jana ormai sposa a San Pietroburgo del principe Gremin. Nuovo incontro con un Onegin depresso, disperato, oppresso dal rimorso e lontano ormai anni luce dalla noia giovanile e da quel senso di fastidio per la vita che lo attanagliava. Rivedere Tat’jana e riaccendersi d’amore per lei è un attimo (scena VI, e nuovo ballo che fa da contraltare a quello ferale di molti anni prima). Da ultimo il rimpianto finale: Tat’jana e Onegin si rivedono la mattina seguente, ormai è troppo tardi e non resta che rimpiangere amaramente il passato, dacché Tat’jana, ora donna matura dalla fermezza morale lodevolmente incrollabile, rifiuta di abbandonare il marito che ha reso felice.
Tutto questo la puntuale ed accurata direzione di Noseda l’ha messo in luce a meraviglia, con tocchi di delicatezza estrema ove occorre, il vigore della musica da ballo, ma anche il senso della tragedia incombente e la visione della natura che si rispecchia nell’animo dei personaggi. Frutto di un lavoro di concertazione accuratissimo, molta cultura, raffinatezza ed eleganza, tutte doti che da anni riconosciamo nel fuoriclasse Noseda. Bene, anzi benissimo l’orchestra e molto bene – come sempre – il coro (ancora una volta ottimamente istruito da Claudio Fenoglio).
Nel cast ha primeggiato la bella e valida Svetla Vassileva, soprano dalle ottime qualità nei panni dell’iper-romantica Tat’jana: voce incisiva, ha regalato momenti emozionanti, ma l’avremmo voluta un poco più partecipe nella scena dell’appassionata lettera d’amore, scritta con giovanile imprudenza ed esuberanza all’indegno Onegin: ben interpretato dal baritono Vasilij Ladjuk con quegli accenti di dandismo smagatamente russo che del personaggio costituiscono l’essenza. Assai ammirato anche il tenore Maksim Aksënov, un Lenskij innamorato della sua bella Olga (la valida Nino Surguladze) e innamorato della vita, pur conscio della labilità delle umane cose, come presago del tragico destino. Ottimi il principe Gremin sbozzato da Aleksandr Vinogradov e così pure la tata (ovvero la balia, insomma la njanja Filipp’evna) resa da Elena Sommer. Apprezzati poi anche Carlo Bosi che ha evitato accenti eccessivamente buffi per la macchietta Triquet e Marie McLaughlin nei panni della vedova e possidente Larina, madre di Tat’jana e Olga.
Bella e funzionale le scena di Mia Stensgaard, di fatto unica, ma con ampie porte che si aprono ora sulla campagna e i covoni di grano, ora sull’alba nevosa sferzata da una tempesta (resa dal video di Leo Warner e Lawrence Watson) ora volta a rendere gli interni e dunque la stanza da letto, ma anche le scene dei balli (apprezzati i policromi ed eleganti costumi di Katrina Lindsay), ora con un intrico di vegetazione simbolicamente rosso sangue sul fondo.
E dunque la regia alla quale sarà opportuno dedicare alcune articolate argomentazioni. Una regia attenta e puntuale, in grado di cogliere le pieghe psicologiche dei singoli personaggi. Qualche perplessità iniziale, però, dinanzi all’idea di avvalersi di un mimo (l’ottima e scalza Francesca Raballo dai movimenti eleganti e flessuosi) per dare visibilità alla giovane Tat’jana, dunque un ‘“doppio”, esattamente speculare ed ugualmente rosso vestita. Ma occorrono alcuni minuti per “entrare” nel meccanismo del doppio che poi, però, di fatto, funziona. Un po’ più cervellotica e lambiccata l’idea di far restare l’alter ego di Tat’jana abbarbicata su una sorta di mensola durante la festa (come se una parte del personaggio, sdoppiato, osservasse se stesso da un punto esterno). Inaccettabile – quanto meno secondo chi scrive – l’idea di avvalersi di un doppio di Onegin (il mimo Andrea Frisano), soprattutto inaccettabile l’idea che sia il mimo ad uccidere in duello, mentre il vero Onegin osserva, come ignavo, intorpidito. Certo, si capisce quale idea abbia mosso il regista: l’idea per l’appunto di restituire l’ignavia, l’ennui del personaggio (Holten dichiara di aver voluto penetrare sotto la sua pelle di uomo dalla strana innocenza, «un uomo che non conosce problemi ed emozioni, vulnerabile e solitario»), ma è fin troppo didascalico e finisce per far torto all’intelligenza del pubblico. Ancora più fuori posto (se non, addirittura, urtante) la trouvaille di far restare il cadavere di Lenskij in scena sino alla fine, ben oltre il tempo tecnico del duello, ma addirittura (sconvolgendo le unità di tempo) allorquando anni dopo Tat’jana e Onegin si incontrano a San Pietroburgo.
Siamo alle solite. Quando un regista pur validissimo (memorabile, dicono, il suo cosiddetto Copenhagen Ring, una delle «più straordinarie produzioni wagneriane degli ultimi anni», come chiosa acutamente nel programma di sala l’attento ed informato Giorgio Rampone) cede alle seduzioni dell’iperdidascalico – ci sia permesso ripeterlo – finisce per far torto all’intelligenza del pubblico: con quel voler sottolineare (in maniera un poco puerile) come la presenza del cadavere di Lenskij non sia possibile cancellarla. Va bene, lo abbiamo compreso tutti il messaggio, ma forse si poteva evitare quel cadavere così a lungo incombente, quella presenza fisica, laddove l’incombenza (ben più tragica e colpevole) è quella dell’anima. Qualche perplessità anche sulla consapevole e dichiarata scelta di voler vestire tutti I personaggi del coro nello stesso modo (in nero, cioè con un colore-non-colore) per rendere «la società attorno a Tat’jana e Onegin come loro la ricordano, un gruppo omogeneo, una folla conforme alla morale e alle regole borghesi». Ora, sulla carta, come assunto teorico ci sta, di fatto in teatro la cosa disturba un poco e, soprattutto, appare fuorviante (contadini e borghesi/aristocratici sullo stesso piano, beninteso visivo).
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