di Ilaria Badino
La Petite Messe Solennelle non può, di primo acchito, non riportare alla mente l’altro capolavoro sacro firmato da Rossini, ossia lo Stabat Mater, antecedente ad essa (o, perlomeno, alla sua primigenia versione per due pianoforti e armonium, risalente al 1863) di ventidue anni. Il genio pesarese, infatti, non ha mai tradito sé stesso, nemmeno quando si vuole alterare la realtà dei fatti guardando a lui tramite la lente offuscata di una fuorviante ottica progressiva secondo la quale tutto ciò che è stato realizzato alla fine delle sue parabole compositive sarebbe meglio di ciò che è venuto prima, pur se ad esso ha arriso subitaneo, enorme successo. Per tanto, troppo tempo, Rossini è stato considerato passibile di canonizzazione nella misura in cui gli è stato riconosciuto un avvicinamento alla sensibilità romantica ed ai moduli compositivi che saranno poi fatti propri e sviluppati in altre direzioni da Bellini, Donizetti e Verdi. E se è pur vero che il Guillaume Tell presenta ambientazione brumosa, tematica libertaria e tipicità musicali apertamente romantiche (si pensi, a titolo esemplificativo, all’utilizzo del ranz des vaches), è altrettanto inconfutabile che in esso risplendono, elevate all’ennesima potenza, le peculiarità smaccatamente rossiniane di una scrittura concitata, agile, protesa verso l’empireo dell’acuto. Forse, la vera, sostanziale differenza che intercorre tra il Tell e il considerevole apporto operistico che lo precede sta nel fatto che, in questo – parziale – canto del cigno, Rossini si prende (e ci prende) più seriamente che non altrove: il sorriso che s’irradia con l’happy end non è più quello di un ragazzo cinico che strizza l’occhio agli dèi osservando, con tono superiore, gli affanni dell’umanità, ma nasce da quella stessa umanità ora percepita come sinceramente dolente e fiera. Ci sembra di riscontrare un medesimo spostamento di focus al termine non della sola parabola operistica, ma di quella di tutta un’attività, nonché di un’intera vita, proprio nella Petite Messe Solennelle.
EMI Classics ha da poco pubblicato in doppio cd il péché de vieillesse estremo (dal momento che la sua versione orchestrale fu approntata dallo stesso Rossini nel 1867, un anno prima della morte), registrato in occasione di alcune performance tenutesi presso la sala Santa Cecilia dell’Auditorium Parco della Musica di Roma lo scorso novembre e concertate da Antonio Pappano. Con gli stessi complessi e per la stessa etichetta, il plurinsignito italo-britannico aveva diretto uno Stabat Mater un poco deludente rispetto alle mirabolanti aspettative suscitate, date per certe la sua eccellenza, la qualità delle masse artistiche e, soprattutto, la caratura dei quattro solisti schierati in campo: Anna Netrebko, Joyce DiDonato, Lawrence Brownlee e Ildebrando D’Arcangelo. Per questa Petite Messe Solennelle, invece, la scelta è caduta su cantanti dai nomi meno bombastici ma d’indubbia bravura; il risultato, più o meno conseguente a tale decisione, è quello di una perfetta quadratura del cerchio, di un’incisione di assoluto riferimento dopo quella edita nel 1995 (ma registrata nel 1993) da DECCA, con Riccardo Chailly a capo delle compagini del Comunale di Bologna.
Cominciamo la nostra disamina con quello che è, in entrambe le massime manifestazioni sacre rossiniane, forse il momento più esteriore, ossia l’aria per tenore solo. Entrambi i brani sono percorsi da un fremito pulsante di operistica baldanza; ma se il celebre Cuius animam dello Stabat, con tanto di Re bemolle sovracuto, ricalca in maniera pedissequa il modello della cabaletta belcantistica, il Domine Deus della Petite Messe è sì sempre animato da una vibrazione balzellante, ma conosce anche numerosi passaggi in cui essa si stempera in dinamiche contenute ed in emissioni soffuse. Sabbatini, sotto la bacchetta di Chailly, ne forniva una lettura disinvolta ma allo stesso tempo globalmente misurata; in questa nuova registrazione, invece, Meli differenzia piuttosto nettamente i piano in cui la voce si smorza ineffabilmente ed i passi di pura esplosione di tutta la sua giovanile, sfrontata esuberanza, nelle ascese in acuto di una fierezza quasi muscolare (quest’ultima già evidente sin dai primi interventi all’interno del Gratias agimus tibi, in cui sono la sua schietta tenorilità e ed il bruno velluto contraltile di Sara Mingardo ad emergere per peculiarità timbrica), cui fa da contraltare ideale l’accompagnamento di Pappano, vigoroso ma frammisto ad una levità quasi mozartiana. Il contralto veneziano dà conferma della proprie capacità empatiche soprattutto nell’Agnus Dei finale – in cui il gemito iniziale dell’oboe in cromatismo ascendente ricorda il lamento che prelude al «Dormirò sol» di Filippo II nel Don Carlos verdiano, che ebbe la sua prima proprio in quello stesso 1867 –, che screzia di una vibrante compartecipazione ancora più apprezzabile grazie alla riduzione degli interventi corali ad impalpabili, quasi sottomessi commenti.
Qui, la parte del basso è affidata ad Alex Esposito, artista in costante ascesa ed ormai presenza fissa del Rossini Opera Festival, mentre nell’incisione Decca fu di Michele Pertusi. Il basso parmigiano, si sa, è diventato, dopo la vetta forse inarrivabile di Samuel Ramey, la pietra del paragone per quanto riguarda la corda più grave nell’ambito del repertorio rossiniano. Esposito si destreggia bene nel dipanarsi dell’ampia tessitura del Quoniam, che controlla in modo ineccepibile; sono piuttosto le colorature finali a non essere sgranate nitidamente.
Pappano esplicita la cifra del suo approccio sin dall’esordio del Kyrie eleison. In primis, vi è la prominenza accordata al risalto delle singole sezioni strumentali: l’obbligato dei contrabbassi si staglia dal resto dell’accompagnamento orchestrale con la forza di un rilievo scultoreo, prominente ed a tratti nervoso; nel Qui tollis viene messa in evidenza la celestialità di ogni singola nota stillata dall’arpa: peccato che la pur corretta Marina Rebeka non sia in possesso né di marcato carisma interpretativo né di una qualità vocale indimenticabile, di quella morbidezza italiana naturalmente bella di una Dessì o di una Frittoli (la quale si è appena esibita nell’ultimo peccatuccio di vecchiaia rossiniano presso il Musikverein di Vienna sotto la direzione di Daniele Gatti), e risulta anonima anche nel Crucifixus e nell’O Salutaris. In secondo luogo, si ha la sottolineatura del carattere eminentemente sacrale delle parti corali più levigate, meno dirompenti, attraverso la ricerca di una sonorità compatta ma sfumata, a rendere l’idea di quell’effetto-eco tipico dell’esecuzione musicale all’interno di architetture ecclesiastiche, avvolgente e fumoso come l’incenso asperso da un turibolo, che ci avvicina alla dimensione più intimamente religiosa propria della prima versione della Petite Messe. Nelle parti che richiedono una coralità più esaltata, tuttavia, come nel caso del vorticoso finale del Cum Sancto Spiritu o del Et vitam ventur saeculi, Pappano risponde adeguatamente alle intrinseche richieste musicali tramite il rimpolpamento della mole sonora, raggiungendo risultati elevatissimi: pur attenendosi strettamente ai dettami della partitura e riuscendo a controllare alla perfezione l’ampio organico nella sua interezza, infatti, riesce a sprigionare un’intensa carica emozionale pervasa di genuina quanto trepida spiritualità.
Rossini | Petite Messe Solennelle | Orchestra e Coro dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, Antonio Pappano dir. | Rebeka, Mingardo, Meli, Esposito | EMI Classics