Opera • Asciutto, ma incisivo ed accurato: nonostante sia a rischio chiusura, ottima produzione per il Teatro Bellini
di Santi Calabrò foto Giacomo Orlando
L’ORIZZONTE IN CUI SI INSCRIVONO gli aspetti multiformi della creatività di Verdi è la “teatralità”, intesa come campo coerente di tensioni sviluppate con evidenza plastica. In Stiffelio, opera ritrovata nella sua interezza solo da un ventennio, Verdi tende però ad oltrepassare i confini del suo orizzonte; l’ethos affrontato, infatti, esorbita troppo dalla cultura melodrammatica per essere del tutto restituito in senso teatrale: non c’è musica del perdono che non sia religiosa. La catarsi arriva infatti durante la messa finale, dove il perdono trionfa, ma nel corso dell’opera affiora il problema di far interagire la “tentazione del perdono” con passioni che parlano lingue diverse. Verdi è maestro nell’assumere e trasformare le forme e gli stilemi standardizzati seguendo la stella polare del teatro, ma i conflitti dei significati qui in gioco causano inevitabilmente qualche problema di drammaturgia. Proprio la particolarità dell’intreccio, d’altra parte, stimola una ricerca che trova anche momenti rari e pregiati: alla fine Stiffelio esibisce un vasto campionario di risorse espressive, che non avranno un seguito globale nei lavori successivi perché non tutte possono imporsi come vocaboli teatrali nel cerchio – pure così aperto – della scena verdiana, ma che aprono squarci sorprendenti su altre musiche e altre drammaturgie.
Opera problematica quanto interessante, Stiffelio necessita di una esecuzione accurata. A Catania la direzione di Antonino Manuli è sicura, energica, equilibrata, consapevole delle esigenze del ritmo scenico – da “aiutare” proprio quando tenderebbe ad affievolirsi – e di quelle della forma musicale, capace di ben regolare il rapporto fra le dinamiche dell’orchestra e quelle dei cantanti. Eccellente il protagonista, Roberto Iuliano, che domina con vocalità elegante ed imponente le mutazioni di un ruolo difficile da definire – dall’incarnazione di un Pantocratore misericordioso a un compare Alfio meno facile di coltello. Dimitra Theodossiou (Lina) svetta espressivamente nei tormenti della moglie caduta in fallo e pentita, soprattutto nel II atto, Giuseppe Altomare (Stankar) è un bel padre verdiano, profondo ed appassionato, il resto del cast – Mario Luperi, Giuseppe Costanzo, Salvatore D’Agata, Loredana Rita Megna, Luca Iacono, Marina La Placa – fa bene la sua parte e il Coro è magnifico. Regia ben calibrata di Ezio Donato: con pochi mezzi scenici, ma curata ed efficace nel definire i punti salienti. Messa su in regime di austerità, questa produzione fa ben sperare per il Bellini, nonostante in questo periodo la politica renda la vita dura. Da mesi al Teatro di Catania lo stipendio è un miraggio; tagli, ritardi e incertezze sui contributi regionali mettono a repentaglio la stessa sopravvivenza. È troppo sperare che i politici siciliani abbiano più tempo per comprendere il livello del lavoro e delle produzioni, e meno per commissariare, lottizzare e alla fine rinviare colpevolmente le soluzioni dei problemi?
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