Speciale Festival • La cittadina tedesca si trasforma una volta all’anno in un punto di ritrovo “cult” per gli appassionati di musica contemporanea
di Gianluigi Mattietti
DONAUESCHINGEN È UNA PICCOLA CITTÀ di circa quindicimila abitanti, dove non succede mai niente a parte una fiera di cavalli. I turisti, di passaggio, si fermano solo brevemente per vedere le sorgenti del Danubio e il parco della Residenza dei principi di Fürstenberg. Ma per tre giorni l’anno quella piccola città sul versante orientale della Foresta Nera diventa il punto di ritrovo di tutti gli appassionati di musica contemporanea e dei giovani compositori. Si tratta del resto del più antico festival di musica contemporanea, con radici nella Gesellschaft für Musikfreunde creata nel 1913 dal principe Max Egon von Fürstenberg per favorire «esecuzioni di musica da camera per l’incremento della musica contemporanea». Dopo aver raggiunto una grande fama sotto la direzione di Paul Hindemith, la rassegna ha conosciuto un lungo periodo di crisi durante gli anni del nazismo e della guerra, ma è poi rinata trovando una collaborazione con l’Orchestra del Südwestrundfunk (SWR), tenendo a battesimo alcuni capolavori del XX secolo come Polyphonie X di Boulez, Metastaseis di Xenakis, Anaklasis di Penderecki, Atmosphères di Ligeti. I Donaueschingen Musiktage celebravano quest’anno la grande forma, contro l’idea così diffusa che un pezzo contemporaneo debba essere di pochi minuti – per soffrire il meno possibile! Tutti i lavori eseguiti, come sempre commissioni SWR e tutti in prima mondiale, giocavano su ampi svilluppi, spesso ispirati a processi biologici della natura, sulla spazializzazione del suono, sulla simultaneità di diversi processi temporali, su importanti suggestioni letterarie, spesso legate al mondo classico e alla filosofia antica.
Tra i lavori per grande ensemble è stato molto applaudito Registre des lumières di Raphaël Cendo, pezzo per 16 musicisti, live electronics e trenta voci, affidato al SWR Vokalensemble di Stoccarda (disposto ai due lati della sala), a musikFabrik e alla direzione attenta di Marcus Creed: 50 minuti di musica concepiti come un viaggio dall’inizio dell’universo fino a oggi, un’epopea sulla storia dell’umanità articolata in tre ampi capitoli (Le temps des origines basato sul primo libro delle Metamorfosi di Ovidio, che descrive la nascita dell’universo; Le temps des premiers hommes; Le temps des civilisations, basato su un estratto dalla Genesi) separati da due Interludi e conclusi da un Epilogo (basato su un frammento di Eraclito), una vasta narrazione condotta attraverso le lente polifonie dei due cori, pervase di sorde turbolenze, sussurri e soffi dall’effetto vaporoso, che si intrecciavano con le masse laviche e i densi vortici della parte strumentale (dominata da flauto basso, tuba e contrabbasso). Un chiaro gusto teatrale emergeva invece in Situations di Georges Aperghis (65 minuti), «Soirée Musicale» destinata a 23 solisti del Klangforum di Vienna (diretto da Emilio Pomàrico), fatta di frammenti, assoli, piccoli pezzi d’insieme, concepiti come minidrammi dalla scrittura virtuosistica, intrecciati e moltiplicati in un caleidoscopio sonoro pieno di humour, ma anche inquietante e sensuale. Il Klangforum ha eseguito anche Speicher di Enno Poppe (80 minuti), sotto la guida dello stesso autore, prima esecuzione integrale di un ciclo iniziato nel 2008. Un autentico capolavoro, nato dall’idea di «Speicher» inteso come luogo della memoria, che suggeriva una rete fittissima di analogie e di contrasti, di sonorità estreme, aggressive, acide e stridenti, soprattutto nei fiati. Una materia varia, sempre molto connotata, ma organizzata in un sistema ordinato, con una sintassi accortissima, che riusciva a creare una trama quasi “parlante”, “narrativa”, un discorso musicale concentrato, nitido, sempre carico di tensione.
Poi c’erano i grandi pezzi orchestrali, affidati all’ottima Orchestra Sinfonica del SWR di Baden-Baden e Friburgo. Nel concerto inaugurale, diretto da Pascal Rophé si sono ascoltate due novità di Walter Zimmermann e di Bernhard Lang. Non granché a dire in vero. Suave Mari Magno di Zimmermann era la prima esecuzione integrale di un grandioso affresco per sei gruppi orchestrali, composto tra il 1996 e il 2013, che prendeva il titolo dal De Rerum Natura di Lucrezio («Suave mari magno turbantibus Aequora Ventis e terra magnum alterius spectare Laborem»), e traeva ispirazione da suggestioni letterarie, ma non solo (da Epicuro e Aristosseno alle tecniche indonesiane di tintura dei tessuti, a un’antica melodia uzbeka, al Racconto orientale del santo ignudo di Wackenroder), trasformate in un gioco mastodontico di canoni, di stratificazioni polifoniche, di poliritmie, di cluster dissonanti e giochi minimal. Ugualmente ambizioso, ma più noioso, era Monadologie XIII «The Saucy Maid» di Lang, destinato a due orchestre intonate a un quarto di tono di differenza. Come negli altri pezzi dello stesso ciclo (Monadologie), il compositore austriaco è partito da un brano classico (in questo caso la prima Sinfonia di Bruckner), trasformato attraverso un software, una specie di generatore di sviluppi musicali che simulano processi biologici. La progressiva decostruzione dei temi bruckneriani generava una densa trama microtonale, con sezioni massicce, prolungate, che evocavano talvolta Charles Ives, talaltra John Adams. Molta attesa c’era per il nuovo pezzo di Alberto Posadas, geniale compositore spagnolo, affermato nei festival internazionali ma ancora sconosciuto in Italia, nato a Valladolid nel 1967, allievo ed erede del grande Francisco Guerrero. Il suo Kerguelen, un triplo concerto per flauto, oboe, clarinetto e orchestra è stato eseguito nel concerto finale diretto da François-Xavier Roth. Il titolo faceva riferimento alle Isole Kerguelen nell’Oceano Indiano, e alla particolare conformazione geologia di quell’arcipelago che sorge su un vasto altipiano sottomarino e che ha suggerito un particolare rapporto tra il suono “tellurico” dell’orchestra e il trio di solisti, che rappresentavano quasi uno strumento unico, un assolo polifonico, come una propaggine sonora dell’orchestra, una sua emergenza stridente. La loro scrittura non era quindi virtuosistica e neppure stabiliva una relazione dialettica con l’orchestra, semmai giocava su continue metamorfosi del suono, ottenute attraverso l’uso sistematico dei mutlifonici e attraverso un procedimento definito di «micro-strumentazione», studiato a fondo dal compositore insieme ai solisti dell’ensemble Recherche.
Un fiasco è stato invece il nuovo pezzo di Bruno Mantovani, Cantata n.3 per coro e orchestra su testi di Schiller – e a Donauschingen, quando c’è da mostrare la propria disapprovazione, il pubblico non va troppo per il sottile e fischia platealmente. Questa cantata appariva concepita in una forma assai tradizionale, con soluzioni strumentali elementari, una scrittura corale di tipo madrigalistico, effetti prolungati e reiterati privi di una vera elaborazione. Meritatissimo, al contrario, il successo ottenuto da Philippe Manoury con In situ, ampio affresco per ensemble e orchestra che è stato anche premiato come il lavoro migliore della rassegna dalla giuria orchestrale. Vero trionfo di Manoury in terra tedesca, In situ prevedeva una precisa dislocazione dei gruppi strumentali intorno al pubblico, che creava un continuo, sottile gioco di geometrie sonore nello spazio della Baarsporthalle, disegnava una geografia di linee timbriche e una complessa rete di relazioni, suggeriva un nuovo approccio con la scrittura polifonica. Pezzo ampio, dal carattere maestoso e avvolgente, si basava su studiati accumuli di tensione armonica, e su una scrittura strumentale movimentata e virtuosistica, piena di echi e di anticipazioni, di textures ambigue, di «esplosioni», «gocce», «superfici frementi».