L’allestimento dell’opera verdiana al Theater an der Wien conta sul carismatico protagonismo del cantante spagnolo. Esaltante la concertazione di Conlon, che dirige senza alcun taglio di tradizione
di Francesco Lora
IL VERDI DEGLI “ANNI DI GALERA” non è di casa nei teatri mitteleuropei; o, perlomeno, non lo è sulle prime scene delle piazze principali. A Vienna come altrove, il cartellone della Staatsoper si rivolge soprattutto al Verdi più maturo, e persino il Nabucco non vi è stato sdoganato prima del centenario della morte dell’autore. Altre istituzioni teatrali cittadine, però, legano la ragione d’esistere al preparare cartelloni complementari: lì il titolo raro diventa una ghiottoneria per il pubblico più curioso, e il grande interprete può farsi conoscere sotto un’angolatura inedita. Tale è il caso dei Due Foscari rappresentati per sei sere nel Theater an der Wien (15-27 gennaio), con Plácido Domingo mattatore nella parte di Francesco. Nessuna svista redazionale: il carismatico tenore dalla carriera senza fine è ormai passato a parti di baritono, aprendo nuovi orizzonti a un repertorio già sterminato, e il personaggio del vecchio doge gli compete oggi più di quello del figlio Jacopo.
Manco a dirlo, l’interpretazione del vecchio leone è di quelle che struggono d’ammirazione. Rispetto a un anno fa, quando in queste stesse pagine si recensì il suo Simon Boccanegra alla Staatsoper , Domingo è ora sceso in modo più compiuto e credibile al registro baritonale, collocando il passaggio alla giusta altezza e formando una regione grave vieppiù timbrata e risonante. La flessibilità dello strumento non gli consente più – o il ben recente debutto non gli ha ancora aperto – la varietà di fraseggio nella quale egli è maestro. Eppure, il suo Francesco Foscari uniformemente stentoreo, fermo e disperato ha un’autorità declamatoria e una chiarezza di personificazione che commuovono, e che restituiscono senza divagazioni il doge nella sua condizione psicologica fondamentale e ossessionante: l’impossibilità di sottrarre il figlio a ingiusta condanna, con l’aggravante – anziché col vantaggio – d’essere il principe della Serenissima Repubblica.
A fianco del tenore divenuto baritono, la parte di Jacopo Foscari tocca ad Arturo Chacón-Cruz. Egli mostra materiale vocale d’indubbio interesse, soprattutto quando attacca il cantabile con franco timbro latino. Nell’ascesa al registro acuto e nell’impeto della cabaletta, tuttavia, si scoprono le falle tecniche e il relativo nervosismo, con note agguantate per il rotto della cuffia e una lettura musicale ancora in fase di sgrossatura. Più convincente è Davinia Rodriguez come Lucrezia Contarini. Al suo aprir bocca è palese la contraffazione: si tratta di un soprano leggero che, approcciando una parte di notevole spessore tragico, sente l’obbligo di scurire il timbro, affondare l’emissione e ampliare il gesto canoro. All’orecchio l’effetto finale è aspro e vetroso, ma il personaggio attinge l’autorevolezza voluta, e l’armamentario della belcantista risponde a dovere: agilità rapida e incisiva, trillo fitto e sgranato, acuti sicuri e squillanti. Si distingue inoltre Roberto Tagliavini, basso italiano che vanta stile e tecnica inappuntabili, e gusto nel tratteggiare uno Jacopo Loredano viscido sì, ma senza calcare la mano. Eccellente il comprimariato.
La vecchia passione del direttore James Conlon per il Verdi giovane si traduce poi in una concertazione esaltante, dove l’ORF Radio-Symphonieorchester di Vienna suona con impeto inaudito – si ascoltino l’animato canto degli archi, il rullare dei timpani e gli scoppi degli ottoni – e dove il compìto Arnold Schönberg Chor trova anch’esso colori di nuova vividezza. Si accoglie con sollievo e gioia l’ascolto dell’opera intera, senza i tagli che una tradizione insulsa infligge a cabalette e pezzi d’assieme.
Poche parole bastano, infine, per dar conto dell’allestimento con regìa di Thaddeus Strassberger, scene di Kevin Knight e costumi di Mattie Ullrich. Coprodotto con Los Angeles, Valencia e Londra, esso è di concezione tradizionale. Le licenze sono rare e innocue, anche quando – in barba a un punto fermo del teatro verdiano, fitto di padri e privo di madri – sia inserita l’amorevole presenza della dogaressa, muto conforto del vecchio Foscari. Si sorride di fronte a ingenuità e anacronismi: il Basso Medioevo veneziano è rappresentato tutto a fosche tinte, tra prigionieri torturati e chierici aguzzini, più immaginando che perseguendo la verità storica; i costumi assortiscono il rinascimentale e il metallaro per casuale eclettismo; e le scene citano la non ancora costruita basilica barocca di S. Maria della Salute. Per riconciliarsi col palcoscenico, tuttavia, basta tendere più l’orecchio che l’occhio.
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