Il pianista al Teatro alla Scala per un nuovo concerto del suo ciclo: in programma pagine di Beethoven e Stockhausen
di Luca Chierici
L’IMPAGINAZIONE DEL CICLO intitolato “Le sonate di Beethoven e la musica del nostro tempo” presentato da Maurizio Pollini in questi mesi alla Scala si presta ad alcune osservazioni che fanno riferimento a scelte programmatiche non certo nuove per il grande pianista. Almeno dai primi anni Ottanta – ben prima quindi che fossero varate le famose serie intitolate “Progetto Pollini” – era ben radicata in lui la volontà di accostare momenti del repertorio classico e romantico a pagine del Novecento in una sorta di mutuo scambio di effetti che rivitalizzava i significati di ambedue i contesti musicali. In entrambi i casi Pollini sceglieva composizioni che, senza dubbio alcuno, rappresentano dei punti fermi nella storia della musica, dei momenti di assoluta eccellenza che hanno influito enormemente sul percorso di un’arte così affascinante e allo stesso tempo di così complessa definizione. Se i criteri di individuazione di queste pietre miliari sono stati quasi sempre perfettamente condivisibili fino a una certa data, via via che la distanza tra il momento creativo e il “nostro tempo” si accorcia ecco che intervengono dei problemi di vario ordine che non ci permettono di giudicare con certezza se una produzione artistica rimarrà o meno nella storia e con quale peso specifico. Ragioniamo ovviamenti in termini cronologici: musica contemporanea significa qualcosa che è stato scritto negli ultimi dieci, venti anni al massimo. Se il significato del termine andasse a coprire quello che si potrebbe chiamare la “contemporaneità del messaggio” è ovvio come siano a noi perfettamente contemporanei Josquin, Gesualdo, Palestrina coì come Beethoven e Chopin, Debussy e Stravinskij, ossia tutti coloro che hanno prodotto musiche che oggi ascoltiamo sempre con estremo interesse e coinvolgimento, ben lontani da qualsiasi atteggiamento di tipo museale. Il repertorio “contemporaneo” che Pollini sceglie oggi e ha scelto negli ultimi quarant’anni di carriera – lo abbiamo verificato ancora l’altra sera attraverso la scelta di due Klavierstücke di Stockhausen – risale alla fine degli Cinquanta del Novecento (l’undicesimo Klavierstück è del 1961). È come se Franz Liszt, durante i suoi recital degli anni attorno al 1830 avesse presentato come “musica del suo tempo”, in piena epoca romantica, le prime Sonate di Mozart o quelle di Carl Philipp Emanuel Bach. Parliamo evidentemente del repertorio che Pollini affronta in prima persona, non di quello che interviene nel programma generale della manifestazione, e che include composizioni di Lachenmann (1991) e di Sciarrino (2011).
Lavori importantissimi che hanno segnato la storia dello strumento, i Klavierstücke di Stockhausen (almeno i quattro che Pollini di solito esegue) assieme alla seconda Sonata di Boulez (1948) costituiscono una sorta di punto fermo nel repertorio del pianista, che ha conosciuto non sostanziali variazioni di approccio durante decenni di esperienze concertistiche. L’esecuzione dell’altra sera è sembrata come sempre estremamente attenta ai dettagli del testo e ulteriormente arricchita da una qualità di suono che appare sempre più affascinante, ma si può dire che l’atteggiamento interpretativo del pianista nei confronti di queste pagine rimane oggi sostanzialmente invariato. Non così accade nel caso delle sonate di Beethoven e nella fattispecie per l’op.106 che ha assunto nel tempo un valore paradigmatico nel contesto del pianismo polliniano e che si può dire rappresenti per lui un motivo di meditazione (ma anche di test psico-fisico) da quasi sessant’anni. Per la 106, come in genere per altri momenti della produzione beethoveniana, si discute da sempre sulla scelta di tempi di esecuzione coerenti con le indicazioni originali di metronomo: intere generazioni di pianisti hanno lavorato al raggiungimento di un compromesso che tenesse conto delle richieste in tal senso e dell’effettiva intelligibilità del messaggio sonoro anche attraverso strumenti che sono considerevolmente differenti dai pianoforti dell’epoca in cui la Sonata venne concepita. Scelte intrinseche di fraseggio possono è vero dare l’impressione di una esecuzione più o meno veloce, ma in questo caso la misura del tempo di esecuzione dà una indicazione abbastanza precisa di quelle che sono le intenzioni dell’interprete. Si è anche soliti indicare in una pionieristica incisione di Arthur Schnabel, effettuata nella metà degli anni Trenta, un termine di paragone che in ogni caso viene tenuto in considerazione: i quarantuno minuti del grande pianista sembrano rappresentare un limite che già mette in serio pericolo la percezione chiara del discorso soprattutto nell’irruente Allegro di apertura e nella complicatissima fuga finale.
Ma quello che ci interessa qui notare parlando del concerto dell’altra sera non è tanto il paragone tra la visione di Pollini e quella di tanti altri pianisti, quanto l’evoluzione interpretativa dello stesso Pollini almeno in un arco di tempo che va dal 1975 all’altro ieri. Il Pollini degli anni di piombo sembrava immergersi nella 106 come un fiume in piena e nei quarantadue minuti del suo viaggio comunicava con una chiarezza sbalorditiva tutta la portata storica del capolavoro beethoveniano. Successivamente il tempo di esecuzione si è ulteriormente ridotto – tranne un intervallo meditativo collocabile verso la fine degli anni Ottanta, quando Pollini superava di poco i quarantacinque minuti – e si è ridotta anche la percezione del testo, perché l’incremento della densità di note nell’unità di tempo ha portato a una esecuzione dove più che l’impellenza del messaggio musicale si coglie il timore del pianista di non essere più in grado di confrontarsi con il mito di se stesso. I 37 minuti e 30 secondi della 106 di lunedì scorso non sono più a nostro parere sostenibili in sala e per una volta ci trovano senza parole, ma non nel senso usuale del termine, alla fine di un concerto di quello che rimane pur sempre uno dei più grandi pianisti del “nostro” tempo.