
In tournée e in forma di concerto, il capolavoro di Richard Strauss trova nella bacchetta di Kirill Petrenko più esibizione musicale che efficacia teatrale. Valori contrapposti nella compagnia di canto, dalle discutibili Isokoski e Koch agli eccellenti Karg e Rose
di Francesco Lora
DALLA BAYERISCHE STAATSOPER AL THÉÂTRE DES CHAMPS-ÉLYSÉES: la tournée da Monaco di Baviera a Parigi è ormai diventata un appuntamento fisso annuale, nel quale un’istituzione-baluardo della cultura musicale tedesca presenta alla Ville Lumière opere in forma di concerto tratte dal proprio cartellone. Opere tedesche, ça va sans dire: citando a memoria, dagli Champs-Élysées sono di recente passati il Fidelio di Beethoven e il Parsifal di Wagner; e ora che il centocinquantesimo della nascita di Richard Strauss è dietro l’angolo, lo scorso 18 marzo è stato il turno del Rosenkavalier. Il teatro monacense possiede uno storico allestimento scenico firmato da Otto Schenk; a costo di rinunciare per una sera al fascino visivo, i vantaggi dell’esecuzione concertistica sono però evidenti: da una parte la liberazione della grande orchestra bavarese dalla gabbia del golfo mistico, dall’altra la sfida a una lettura tanto pregnante da divenire teatro al solo ascolto.
Per la verità, il direttore Kirill Petrenko si mostra interessato più alla componente virtuosistica e strettamente musicale della partitura (sciagurati tagli di tradizione annessi) che a quella narrativa, indagata anche sulla parola, sull’espressione e sull’atmosfera: tutti aspetti che, tra un libretto-capolavoro di Hofmannsthal, l’appassionato confronto fra tre generazioni di personaggi e le alcove, i saloni e le bettole della Vienna di Maria Teresa, protesterebbero un rilievo fondamentale. Ne escono così un atto II e un atto III rutilanti di timbri e mezzetinte, ma insolitamente ingessati nel rubato del valzer e nel flettersi al testo letterario; e l’atto I, luogo di capriole tra le lenzuola, dichiarazioni di libertinismo e ruffiani intorno a una principessa, suona addirittura glaciale nella sua alternanza di sommarietà e calligrafismo.
In quell’atto I si inserisce purtroppo a puntino la Marescialla di Soile Isokoski, enigmatica per i benevoli, fuori bersaglio per gli schietti: la trentaduenne che fantastica sulla propria vecchiaia diviene qui per davvero una zia attempata, la quale non può certo dispensare e ricevere grazie erotiche presso un antitetico Octavian. Talune ansie sono tradotte con la raffinatezza della liederista, ma non si trova un’ironia, una mollezza, un mistero; e persino le due parole del congedo, quello «Ja, ja» che è un forzato assenso all’ingresso nella generazione dei genitori, suonano con una sciocca festosità, come se in esse non pesasse una vita e il mondo. Degno Octavian di modesta Marescialla è a sua volta Sophie Koch, scritturata per questa parte sempre e ovunque, ma altrettanto sempre sospesa tra caricatura, stilizzazione e manierismo, e lontana da una conversazione vivace e da veri slanci adolescenziali.
Accanto alla Isokoski e alla Koch vi sono però una bella sorpresa e una grande conferma. La sorpresa è quella di Christiane Karg, corsa a sostituire Mojca Erdmann: la sua Sophie è di riferimento per naturalezza, luminosità, buonsenso, differenziazione timbrica accanto alle colleghe di pari corda e capacità di evocare semplicità e giovinezza senza traccia di affettazione o bamboleggiamento. E la conferma è quella di Peter Rose, con ogni probabilità il più completo Barone Ochs oggi alle scene: il personaggio è già definito quando egli, alla sortita, sfratta con galante strafottenza l’Octavian/Koch dal suo leggio; per farsi un costume di palcoscenico, gli bastano l’esplosivo fisico da tricheco e il tirar fuori dalla tasca un fazzoletto, ora agitandolo ora asciugandosi il sudore; canto e parola divengono una stessa cosa e uno stesso mezzo per costringere l’uditorio alla maratona: quella dietro un fraseggio cangiante a ogni sillaba, incontenibile per brio e fantasia anche quando sornione, autentica illustrazione sonora di un modo di essere e di vivere. Senza un solo eccesso. Un regista non potrebbe chiedere di più.
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