Il compositore tedesco è stato il tutor per il 2014 della Fondazione torinese. Accanto al suo Streichquartett n° 3 ed alla Große Fuge beethoveniana le nuove proposte di Alessandro Perini e Daniele Ghisi eseguite dal Quartetto di Cremona
di Attilio Piovano
CHE LA BEETHOVENIANA Grande Fuga op. 133 sia un capolavoro di sconvolgente modernità, con la sua ardimentosa arditezza di concezione, è verità risaputa: uno di quei lavori che al suo apparire – la sera del 21 marzo 1826 – deve aver creato negli astanti uno tra i più memorabili effetti shock della storia della musica, quanto meno di quella cameristica, paragonabile – forse – solamente alla dirompente eversione, per dire, dello stravinskijano Sacre quasi un secolo dopo (a Parigi nel 1913). Tuttora ascoltare l’op.133 tutta d’un fiato, specie se eseguita magnificamente, con una perfezione tecnica a dir poco assoluta, un’energia indicibile, un’esattezza ritmica strepitosa e una grande varietà di colori, come è accaduto sabato 7 giugno presso la Fondazione Spinola Banna per l’Arte a Poirino (nei pressi di Torino) a cura del Quartetto di Cremona, è esperienza davvero totalizzante. Cristiano Gualco, Paolo Andreoli, Simone Gramaglia e Giovanni Scaglione l’hanno interpretata con una potenza espressiva che raramente è dato ritrovare in esecuzioni correnti (non a torto i quattro baldi musicisti dall’infaticabile attività internazionale vengono sempre più considerati gli eredi legittimi del blasonato e indimenticabile Quartetto Italiano). Nel mostrare al pubblico – quasi una lezione di stile e di storia – di quanti decenni fosse ‘avanti’ Beethoven nel concepire questo suo estremo lascito cameristico, il Quartetto di Cremona appariva carico di un’energia invidiabile: fin dall’esordio, brutale e aggressivo, giù giù attraverso le fitte trame polifoniche della partitura, sino al consolatorio epilogo che è uno di quei prodigi assoluti dell’universo dell’Arte: come la bachiana Passione secondo S. Matteo o – per dire – il sublime Quatuor pour la fin du temps di Messiaen. E dire che il complesso veniva da una settimana di intenso lavoro quotidiano al termine dell’ormai annuale stage residenziale propiziato e strenuamente voluto dalla Fondazione Spinola stessa, progetto giunto ormai alla sua ottava edizione.
La formula è sempre la medesima: un compositore di chiara, di chiarissima fama internazionale (si sono avvicendati bei nomi, da Vacchi a De Pablo, da Francesconi a Sciarrino) e due giovani compositori prescelti a seguito di una rigida e selettiva ‘scrematura’ cui commissionare nuovi lavori; poi l’opportunità rara di vederli ‘crescere’ a contatto con gli interpreti nel corso di una settimana di intenso work in progress, nella quiete propizia del vasto podere Spinola dagli articolati edifici, immerso nel verde e nella cultura, con annesso Auditorium ricavato da un ex granaio (acustica impareggiabile). Quest’anno il tutor è stato il tedesco Helmut Lachenmann, solida cultura ed un’inventiva pressoché inesauribile. E allora si comprendono gli applausi protratti al suo Grido, Streichquartett n° 3 (composto nel 2001-02 per il Quartetto Arditti e premiato nel 2004 dalla londinese Royal Philharmonic Society). Una pagina della durata di oltre 23 minuti dove nulla è gratuito, ogni nota ha una sua precisa ragion d’essere. Un fascino timbrico specialissimo, con zone di incredibile leggerezza, sonorità rarefatte al limite dell’udibile, effetti per così dire ‘stratosferici’ ottenuti mediante una varietà enorme di modi di attacco del suono. E allora fruscii e parti innervate invece di vis energetica e una scrittura densamente polifonica, del tutto prive di inutili asprezze. Suoni ‘soffiati’, altri ‘raspati’, effetti magmatici e materici di fascino davvero unico, suoni ‘macchinistici’, talora quasi allusivi a una (inesistente) sorgente elettronica, sino all’epilogo, impercettibile come una carezza, dopo un secco e plateale ‘gesto’, quasi lacerante strappo.
Non è parso invece particolarmente originale, né tantomeno incisivo, il lavoro di Alessandro Perini ascoltato subito dopo. S’intitola Grammar Jammer risulta frammentario ed a tratti incoerente, scritto con innegabile maestria e conoscenza del mezzo tecnico, ma senza alcun reale colpo d’ala. Tant’è che i suoi dieci minuti di durata innescano un senso di saturazione, evidente qua e là un certo effetto di déjà vu (o più propriamente entendu). Più stimolante l’altro brano dei due commissionati dalla Fondazione e anch’esso, come quello di Perini, in prima assoluta: ne è autore Daniele Ghisi e s’intitola Come di Tempeste. Gioca su insistiti e suggestivi glissando continui, quasi una vera e propria cifra stilistico-espressiva. Affascina per il suo carattere sfuggente e misterioso. Alla Fondazione il merito di dar spazio alla creatività contemporanea, sostenendola ed incoraggiandola. E di questi tempi di massificazione (e banalizzazione) della cultura non è certo cosa da poco.
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