Il Festival di Pentecoste di quest’anno è tutto dedicato al Cigno di Pesaro: Cecilia Bartoli, direttore artistico, è protagonista sia buffa sia seria e convoca intorno a sé tenori di vaglia
di Francesco Lora
CON L’ECCEZIONE DEL FESTIVAL DI BAD WILDBAD, la renaissance delle opere di Rossini non ha quasi toccato i teatri germanici: L’italiana in Algeri, Il barbiere di Siviglia, La Cenerentola e – nei tempi di scialo – il Guillaume Tell sono all’incirca tutto quello che si può vedere in giro; una situazione simile a quella di sessant’anni fa. Eppure la febbre rossiniana, a suo tempo, aveva contagiato anche l’Europa centrale; leggendario rimane, in particolare, il passaggio della compagnia di canto del Teatro di San Carlo di Napoli, anno 1822, al Teatro di Porta Carinzia di Vienna: le opere del Cigno di Pesaro presentate in quell’occasione fecero furore e condizionarono il gusto musicale della capitale austriaca. Il Festival di Pentecoste di Salisburgo, tramite la direzione artistica di una regina rossiniana come Cecilia Bartoli, si è ricordato di quell’evento e ha dedicato tutto il cartellone di quest’anno al sommo operista: inaugurazione con La Cenerentola, proseguimento con una serie di sei concerti a tema, conclusione con l’Otello; una rassegna accolta trionfalmente in una maratona di cinque giorni: 5-9 giugno.
LA CENERENTOLA
Non tutto merita l’alloro nella Cenerentola inaugurale, anteprima delle cinque recite che andranno in scena durante il festival estivo, nella stessa sala teatrale della Haus für Mozart (21-31 agosto). Soprattutto, nascono obsoleti e divengono occasioni sprecate i due punti nei quali si cercherebbe la novità: da una parte la direzione di Jean-Christophe Spinosi alla testa dell’Ensemble Matheus e dei suoi strumenti originali; dall’altra l’allestimento con regìa di Damiano Michieletto, scene di Paolo Fantin, costumi di Agostino Cavalca, luci di Alessandro Carletti e video di Rocafilm.
Si parte dalla musica. Gli archi con corde di budello, gli ottoni naturali e i legni di antica fattura hanno, rispetto ai loro discendenti, suono meno determinato, pieno e rotondo, ma nel contempo più materico, incisivo ed evocativo. Va da sé che nulla avviene in modo automatico e che il loro uso deve essere sempre guidato da un’idea; anzi: da un’idea forte, capace di spremere e riordinare le potenzialità tecniche, descrittive ed espressive. Ma a Spinosi, apprendista rossiniano cui sfuggono i dettagli, interessano solo gli estremi: il fortissimo e il velocissimo, in particolare, e la manomissione del metro musicale (per esempio: melodie interrotte bruscamente al fine di assecondare il gesto scenico voluto dal regista anziché quello che la melodia stessa ritrae).
Soprattutto su questo cammino, l’Ensemble Matheus inciampa e imbarazza: corpo sonoro esanime, fraseggio casuale, timbro sabbioso, intonazione allo sbando e chiasso a volontà; sbavature e opacità negli assoli dei legni, che sarebbero invece l’emblema del brillante; grigiore e rattatuia nella casa arguta e minimalista di Rossini. E non è colpa degli strumenti originali: a dimostrarlo ci sono Diego Fasolis e i suoi Barocchisti ticinesi che, in un concerto dell’indomani al Mozarteum, presentano musiche di Rossini e Meyerbeer, ribaltate come un calzino grazie all’uso degli strumenti originali e a una lettura filologicamente informata, ma sempre argentinamente sfavillanti, perentorie nel gesto musicale, traboccanti di salute e pronte a indicare nuove e migliori vie interpretative.
Cecilia Bartoli, veterana della parte di Angelina, opta qui per un carattere meno sognante, fiabesco e moraleggiante di altre volte, e si presenta come ragazza di periferia, affettata qui e là, tendente alla gaffe, fors’anche un po’ sboccata
Nulla d’importante ha a sua volta da dire il lavoro teatrale di Michieletto: in faccia alle pretese dell’enfant terrible della regìa d’opera, questa è la sagra del visto e rivisto, ricombinato con triste esito e qualche contraddizione. Portati dai tempi della fiaba alla nostra contemporaneità, il palazzo di Don Magnifico diviene un bar squallido e quello di Don Ramiro il suo speculare locale di tendenza. La tenera commedia del libretto scade a una farsa ridanciana, volgarotta e incoerente: Angelina è una cameriera sciatta e spiccia, che però s’infila i biglietti nel seno anziché in tasca – risaputo vezzo di ogni barista d’oggi – e nel finale gioca a imitare Marilyn Monroe come una qualunque sorellastra viziata; in presenza di televisori e televisione, non si comprende come possa reggere lo scambio di ruoli tra l’oscuro cameriere e il principe paparazzato; Alidoro smette di essere l’educatore filosofo e torna a essere il mago da fiaba nel quale Rossini, il librettista e la tradizione tutta del teatro d’opera già non credevano più: ripete le bizzarrie già prescritte da Michieletto alla mima muta nella Gazza ladra pesarese del 2007 e passa così da pragmatico e moderno deus ex machina in carne e ossa a macchietta agente da un mondo parallelo. Le trovate, infine, hanno le gambe corte: il coro maschile al séguito del finto principe canta in abiti femminili; un mezzo sorriso e finisce lì, con un’immagine non sviluppata nelle scene seguenti; ma un anno fa Sven-Eric Bechtolf, nella sua Cenerentola per la vicina Staatsoper di Vienna, aveva già elaborato la stessa idea con altro vigore: travestiti da irresistibili finte virago, i suoi coristi divenivano personaggi caratterizzati e tenevano banco sino alla fine dello spettacolo.
Nella compagnia di canto, delude tanto il trio dei bassi buffi quanto la coppia delle sorellastre. Quest’ultima è tanto funzionale all’idea visiva del regista quanto impari alle prerogative canore: minuscola e squittente la Clorinda di Lynette Tapia, gigantesca e roca la Tisbe di Hilary Summers (alto rischio di sottovalutazione soprattutto nel primo caso: a Clorinda tocca l’unica ed esposta parte sopranile dei pezzi d’assieme). Per ciò che riguarda gli uomini, i mezzi di ciascuno, in sé validi, mal si abbinano all’impegno presente. Non premiato da una grande carriera, Enzo Capuano ha voce di basso vellutata e sonora, degna di parti nobili – chi scrive ricorda il suo buon Selim in un Turco in Italia al Teatro Comunale di Bologna: 1995 – ma deviata per ripiego su parti di buffo caricato, erroneamente classificate come di minor peso. Nel suo Don Magnifico il disagio interpretativo aumenta proprio laddove la parte è più peculiarmente caratterizzata dal punto di vista musicale e teatrale: i sillabati veloci, per esempio, sono poco scorrevoli e sonori, e il personaggio si rassegna alla manesca visione di Michieletto perdendo la pompa, lo scherzo, la bonarietà, la sottigliezza, lo straniamento tipico dei bassi buffi e delle loro interpretazioni. Teatralmente, invece, il Dandini di Nicola Alaimo è ambientato alla perfezione, e anzi riesce a trovare il compromesso tra il testo e l’idea registica; lo attende al varco, però, la scrittura musicale, dove l’ascesa al registro acuto è fibrosa anziché lucente, e dove i tanti fioritissimi passaggi lo colgono impacciato anziché giocator maestro. In ultimo, si apprezza Ugo Guagliardo per dedizione e musicalità; ma la parte di Alidoro, soprattutto in presenza della “grande aria morale” «Là del ciel nell’arcano profondo», e a differenza di altre parti già sostenute nel repertorio settecentesco, gli sta ancora larga quanto a floridezza di mezzi vocali e insolenza virtuosistica.
Chi trionfa è la coppia degli amorosi, dove lei si conferma e lui si rivela. Cecilia Bartoli, veterana della parte di Angelina, opta qui per un carattere meno sognante, fiabesco e moraleggiante di altre volte, e si presenta come ragazza di periferia, affettata qui e là, tendente alla gaffe, fors’anche un po’ sboccata (se il libretto di Ferretti non parasse a priori il colpo; dopo il matrimonio, l’arruolata di Alidoro sarà di certo attesa a un brigoso addomesticamento principesco). Nella musica e nel canto, ce n’è per poche come per la Bartoli: l’agilità è come sempre vertiginosa ed elettrizzante, e i recitativi ricevono cure e lumeggiature espressive altrove impensabili. Dopo tanto andirivieni da un capo all’altro del repertorio, e alla vigilia del debutto come Isabella nell’Italiana in Algeri, si è invece accentuato il contrasto tra un registro acuto piccante e cristallino e un registro grave affondato e androgino, dando luogo a una disomogeneità di registri persin ostentata, non subito piacevole all’ascolto ma documentata presso alcuni contralti storici in odore di santità rossiniana (da Rosmunda Pisaroni a Maria Malibran). E il momento più riuscito è forse, come non ci si aspetterebbe, nell’ingresso mascherato alla festa del principe, dove risalta non tanto il carattere del personaggio, comunque lo si voglia declinare, quanto piuttosto l’accento eroico della primadonna e l’eminenza della situazione drammatica.
Discorso sintetico ma entusiasta, infine, a proposito di Javier Camarena come Don Ramiro: timbro di maliosa fragranza latina, vocalizzazione senza impaccio veruno, volume e proiezione e squillo fuori dal comune, modulazione duttilissima a ogni altezza e attraverso qualsiasi dinamica, ascesa al registro acuto di una facilità disarmante, innata simpatia interpretativa dove la semplice comunicativa dell’interprete diviene subito l’indiscussa bontà d’animo di un innamorato. Nonostante una regìa di Michieletto.
OTELLO
Angeli tutelari di un buon teatro di regìa applicato all’opera sembrano invece, oggi, Moshe Leiser e Patrice Caurier: insieme mettono sì in crisi didascalie e letteralità di libretto e musica, ma per darne una lettura pregnante al colmo e per liberarne i sottintesi culturali scabrosi, di norma mantenendosi nella corretta esegesi del testo e nella sua necessaria preservazione. Il loro allestimento dell’Otello rossiniano ha visto la luce due anni fa all’Operhaus di Zurigo ed è poi stato ripreso ad Anversa, Gand e Parigi; ha scene di Christian Fenouillat, costumi di Agostino Cavalca e luci di Christophe Forey e Hans-Rudolf Kunz; merita ora la ripresa nel Grosses Festspielhaus di Salisburgo, contribuendo assai alla rivalutazione del Rossini tragico presso un pubblico che ancora lo conosce poco e non vi investirebbe molta attenzione. L’azione è trasposta in un’immaginaria Repubblica di Venezia, ancora in piedi negli scorsi anni Cinquanta-Sessanta, dove un doge decrepito arranca in corno e manto, circondato da signori del potere in giacca e cravatta, e dove si può aprire un frigorifero o giocare al biliardo o salire in motocicletta (evidentemente il disordinato pied-à-terre di Otello, il ‘diverso’ della situazione, non sta in un palazzo del Canal Grande ma sulla terraferma di Mestre o Marghera). La recitazione insegue così uno studiato realismo, crudo e attentissimo ai particolari, come se ciascun attore stesse non davanti a file e file di poltrone, ma davanti a una cinepresa per un primo piano.
In particolare Desdemona riceve risalto inedito, tramite un’estensione a tutta l’opera delle orgogliose rivendicazioni d’amore da lei espresse nell’ultimo duetto: il personaggio risulta maturo, determinato, anticonformista, rispettoso delle istituzioni ma fiero nel dichiarare la propria posizione. Così nel finale dell’atto II, quando l’eroina dice a Elmiro «L’error d’un’infelice, | pietoso, in me perdona. | Se il padre m’abbandona, | da chi sperar pietà?», i versi e la melodia non cambiano di un segno, ma il tono passa da quello di un’implorazione sottomessa a quello di una sfida sarcastica: donna libera contro padre ignobile. Con questa impostazione registica, Cecilia Bartoli fa faville e persin supera la prova appena data nella Cenerentola. Quando ella è sul palcoscenico, ogni collega e ogni spettatore pende da una sua biscroma, da un suo accento, da un suo cenno; il mordente dei passaggi d’agilità, la scultura della parola, l’impeto del suo gesto restituiscono un personaggio maiuscolo, donna mitica al pari di Medea o Didone, ma sgravata da paludamenti classici e ripulita all’essenziale espressivo di una donna vera, combattiva, resa affascinante dal professare una caparbia utopia in faccia a un’evidente sopraffazione. Ecco l’Armida rossiniana, ecco l’Anna Erisso del Maometto II, o ecco anche la Ninetta della Gazza ladra che, fantasticando, piacerebbe ascoltare da una primadonna tanto carismatica.
Le fa corona il solito esercito di tenori che Rossini schiera nelle sue opere napoletane. La parte eponima tocca a John Osborn, cioè a una benedizione vivente del canto rossiniano baritenorile, come a loro tempo lo sono stati Chris Merritt e Bruce Ford: la coloratura, non facilissima, è però dipanata in modo immacolato; il salto dal sopracuto squillante al grave rimbombante non perde mai di vista il timbro, lo smalto, la giusta emissione; l’attore coniuga il rigore delle forme musicali con una recitazione realista e disinvolta. Il resto della compagnia di canto non si mantiene altrettanto lussuoso, ma è sempre all’altezza della situazione. Il secondo tenore Edgardo Rocha, come Rodrigo, è vocalmente ben differenziato rispetto a Osborn, non rischia l’evanescenza espressiva malgrado l’emissione assai leggera e, senza alcuna esitazione, viene a capo della virtuosistica aria all’inizio dell’atto II. Il terzo tenore Barry Banks, come Jago, sa farsi spazio interpretativo in una parte già piuttosto marginale, ed efficienti sono anche il quarto e il quinto, ossia Nicola Pamio come Doge ed Enguerrand De Hys come Gondoliere.
La parte di Elmiro, senza arie ma già prediletta da bassi mitici come Luigi Lablache, tocca a un Peter Kálmán volutamente rude e spigoloso, mentre Liliana Nikiteanu fa di Emilia un vero personaggio, fraseggiato con dovizia di sfumature e calorosamente onnipresente al fianco di Desdemona fino all’ardore dell’amore saffico (registicamente tenerissimo il bacio che l’eroina le dà prima di andare a morire: esso esaudisce il desiderio impossibile congedando l’unica persona silenziosamente fedele). Due sole mende a una serata indimenticabile: lo stolto taglio interno del coro d’avvio al Finale I, avallato dal direttore di fronte a una richiesta registica che andava invece respinta, e il ritorno di Spinosi e della sua Ensemble Matheus, per i quali si ripetono nude, crude e rincarate le riserve già espresse a proposito della Cenerentola.
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