Con la direzione musicale di Gianandrea Noseda e la regìa di David McVicar va in scena al Regio l’opera di Stravinskij, nuovo allestimento in co-produzione con la Scottish Opera
di Attilio Piovano
BUON SUCCESSO, al Regio di Torino, per il penultimo titolo di stagione, lo stravinskijano Rake’s Progress, capolavoro assoluto di solida drammaturgia, nonché partitura di inarrivabile bellezza. Ed è un piacere ritrovare in cartellone quest’opera, vero e proprio concentrato delle più tipiche maniere di Stravinskij (specie lo Stravinskij neoclassico) tant’è che la si vorrebbe vedere più spesso. Al Regio, per dire, l’ultima volta era apparsa – coraggiosamente – in apertura della stagione 1999-2000, mancava dunque da un bel po’, sicché bene hanno fatto sovrintendenza e direzione artistica a includerla quest’anno in stagione. E proprio il direttore artistico del Regio – Gianandrea Noseda – l’ha diretta martedì 10 giugno (solamente quattro le repliche previste, ed è un peccato).
Noseda col Rake’s Progress ha un significativo feeling, in altri termini è partitura ch’egli conosce a menadito nei minimi dettagli, e si sente. Già l’avevamo ammirato alla guida dell’Orchestra delle Settimane Musicali in occasione dello StresaFestival 2008 in un’edizione in forma di concerto (o più propriamente semi scenica, dacché si avvaleva delle video proiezioni di Lucrezia Le Moli, ora oniriche ora graffianti). Al Regio molto opportunamente l’opera è approdata nel nuovo allestimento in co-produzione con la Scottish Opera Glasgow (con gli opportuni necessari adattamenti alle vaste dimensioni del Regio), per la regia di David McVicar, con efficaci scene e costumi di John Macfarlane e le funzionali luci di David Finn. Bella, anche se non certo nuova in assoluto, l’idea scenica iniziale, col teatro ‘settecentesco’ a vista, con tanto di incastellature e scalette laterali, graticcio, i fondali dipinti (a ricordare la matrice dell’opera, le incisioni settecentesche di Hogarth cui si ispira il serrato libretto di Wystan Hugh Auden e Chester Simon Kallman) movimentati rigorosamente ‘a mano’ con un tocco di innegabile naïveté a sottolineare quel che di arcadico evocato nell’iniziale Giardino della casa di campagna di Trulove. Ma poi ecco che in seguito l’idea del teatro a vista si perde (ingenerando un certo senso di incoerenza, ma è piccola cosa), salvo mantenere tra i vari cambi di scena il fondale con allusivo teschio dipinto, esplicito memento mori. E allora ecco la scena del londinese bordello di Mother Goose dai colori abbacinanti vistosamente fluo nelle gradazioni del rosso che vira al fucsia ed al rosa e un che di esplicitamente kitsch, invero del tutto funzionale (e una fin troppo vasta ed esplicita campionatura di amplessi declinati in tutte le possibili versioni, pseudo perverse, quasi un bignami di Kamasutra in salsa provinciale). Buoni, peraltro e perfettamente calibrati i movimenti scenografici di Andrew George.
Se la misteriosa e neogotica scena del Giardino di notte di Trulove sembrava estrapolata da una Maria Stuarda o una Donna del Lago, ecco che gli interni (ovvero la Stanza della colazione della casa londinese di Tom, poi più avanti teatro della beffarda vendita all’asta dei beni ormai alienati) si ammantano di un look inconfondibilmente British e (intenzionalmente, supponiamo) piuttosto vieux jeu. Un ambientazione curiosamente a metà tra metafisiche piazze (De Chirico) e uno sguardo retrospettivo alla Venezia come in certi dipinti di un Pietro Longhi per la Strada di fronte alla casa di Tom, improbabili bagliori sulfurei e un che di dark nella scena del cimitero, insomma qualche incoerenza qua e là, ma nel complesso scene suggestive, nel senso etimologico della parola, atte a suggerire luoghi e situazioni, e perfino qualche allusione a certo Bösch; per fortuna niente letti d’ospedale né monache per il manicomio, ma nuovamente la ripresa delle incastellature e al centro un bianco giaciglio, più evocatore di classicheggianti immagini – quelle stesse alle quali allude il testo – che non realistica visione.
Ottimo il versante musicale di questa valida produzione e significativo successo personale di Noseda che ha diretto con la consueta cura, precisione analitica e con quell’entusiasmo che gli è connaturale. Ecco allora la voluta relativa staticità dell’esordio («difficile – ci confidava il direttore in camerino – nel Rake’s Progress è partire, tutto si gioca lì»), poi la variegata e frastagliata sequenza di increspature ritmiche del secondo quadro, giù giù attraverso le pieghe di questa superba partitura, in assoluto uno dei più fortunati esiti teatrali di Stravinskij; uno Stravinskij – lo si accennava più sopra – ancor tutto neo-classico, da cui il carattere di pastiche settecentesco della partitura, con le sue acidule intemperanze e i suoi singolari agglomerati armonici (vedasi la onirica scena del cimitero) o le reminiscenze dall’Oedipus rex in quella sorta di marche funèbre che suggella la scena della pazzia di Tom, una musica che con la sua capacità camaleontica di trasfigurarsi, aderisce in maniera perfetta al superbo libretto. Noseda ha ben colto tutto questo, sintetizzando l’esprit di quest’opera che riprende in chiave moderna, e assai amara, l’archetipo dell’uomo ozioso, privo di volontà, in balia alle seduzioni del mondo, irresponsabile ed egocentrico, avido ed incosciente, incapace di organizzare la propria vita su salde basi. “Un po’ Don Giovanni un po’ Faust”, e infatti Tom Rakewell gioca al libertinaggio (memorabile la scena londinese dei bagordi nell’ultima parte del I atto) e finisce per pentirsi, provare sazietà e disgusto e vendere non tanto l’anima quanto il senno al diavolo (‘il corpo torna alla polvere fugge l’anima’).
E allora Noseda ha ben colto la valenza solistica di molti passi, la preziosità timbrica della partitura, sino a staccare tempi pimpanti per la ‘morale’ finale con tutti i cantanti in palcoscenico (a rendere il distacco oggettivo) morale che recita più o meno: «il diavolo ha buon gioco con chi nella vita è stato ozioso» finale che – sul piano strettamente musicale, con quelle sue rapide scale ascendenti si rivela fitto di evidenti rimandi all’impareggiabile e antecedente Pulcinella. Al successo hanno dato un apporto determinante le buone voci di un valido cast. Se nel tenore Leonardo Capalbo, cui spettava l’impervio ruolo del protagonista, il libertino Tom, avremmo voluto un po’ più di passione e varietà di accenti, un po’ più di abilità nel trascolorare dall’euforia alla dimensione onirica, sino alla pazzia, più naturalezza e scioltezza, sia vocale sia scenica, più capacità di rendere lo stacco tra l’euforia iniziale per le improvvise ricchezze e la desolante malinconica fine, impregnata di spleen, con l’annebbiamento della ragione, per contro impareggiabile è apparsa la performance del baritono Bo Skovhus nel ruolo incandescente e mefistofelico del proteiforme Nick Shadow, dal nome programmatico. S’è trattata d’una prova davvero di alto livello (non a caso il più applaudito a fine serata da parte di un pubblico convinto, ancorché un po’ scarso), bene sul piano vocale e così pure quanto a capacità di sbozzare la psicologia del personaggio. Sul versante maschile da segnalare il valido basso Jakob Zethner (nel ruolo di Trulove, l’austero e pur partecipe padre), così pure Colin Judson che ha ben risolto con toni arguti e grotteschi la scena madre della vendita all’asta.
Ed ora le voci femminili: qualche perplessità ha destato la diafana Anne di Danielle de Niese (peccato per certe asprezze all’acuto e, per contro, con suoni deboli al centro, stentava a decollare nei momenti lirici; meglio il versante malinconico-elegiaco, il notturno e la ninna-nanna in manicomio), molto bene l’esuberante mezzosoprano Annie Vavrille che ha ottimamente affrontato, con ironia e charme, il ruolo della turca barbuta Baba. Bene i comprimari (tra essi Barbara Di Castri, la tenutaria del postribolo); buona in complesso la prova dell’orchestra (un po’ affaticata qua e là e sempre un filino guardinga dinanzi al ‘900, più a proprio agio nel repertorio ottocentesco), benino il coro istruito da Claudio Fenoglio (qualche sbandamento ritmico e talora un poco spaesato), un plauso speciale a Giannandrea Agnoletto per aver disimpegnato al cembalo gli ironici ed agrodolci recitativi, spassoso calco di maniere settecentesche.
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