Sollecitazione insidiosa: gli allestimenti invecchiano? La regìa di Filippo Crivelli nel contesto del lavoro di Zeffirelli per il titolo di Donizetti. Tra gli interpreti Desirée Rancatore e Celso Albelo
di Santi Calabrò
FA UN CURIOSO EFFETTO rivedere Desirée Rancatore e Celso Albelo sulla scena del Teatro Massimo di Palermo alle prese con Donizetti, due anni dopo l’Elisir d’amore ambientato da Damiano Michieletto in uno stabilimento balneare. Per un verso gli stessi cantanti, lo stesso teatro e lo stesso compositore (stavolta in scena è La fille du régiment) sembrerebbero permettere comparazioni tali da facilitare resoconti e giudizi; gli allestimenti in questione, tuttavia, rispondono a concezioni talmente diverse che il confronto è da avviare con molte cautele. La fille du régiment vista a Palermo in questi giorni non è infatti né moderna né “trasgressiva”: costituisce l’ennesima riproposta di un fortunato allestimento di Zeffirelli, che debuttò proprio al Massimo nel 1959. Da un lato (nel caso di Michieletto) c’è dunque l’azzardo di ri-ambientare l’opera per sottolinearne una perdurante modernità, operazione che sollecita in tutti gli interpreti, sulla scia della regìa, la necessità di uno sforzo ermeneutico particolare, anche perché il pericolo è che la rilettura si ritorca contro l’opera stessa.
Dall’altro lato la situazione opposta: questa Fille du régiment zeffirelliana che sembra bloccare il tempo con la sua fiabesca autorità è un esempio eminente di tradizione al quadrato. Per ciò stesso, non manca la sollecitazione insidiosa: sarà “finalmente” invecchiato questo allestimento? Agli interpreti, nei due casi, va una responsabilità di natura diversa: contribuire a svelare una possibile “verità” inedita dell’opera o attestare la perdurante attualità di una chiave di lettura già accreditata; dalla scoperta alla ratifica. In questo senso ci pare di poter affermare che questa differente disposizione non sia solo di ordine generale, ma puntualmente riscontrabile nelle prestazioni dei protagonisti, e in particolare nel diverso modo di restituire la coloratura donizettiana da parte del soprano.
Nell’Elisir Desirée Rancatore era riuscita a rendere memorabile persino l’ultima cabaletta (quella che non convinceva lo stesso Donizetti!), trasfigurando le raffiche di vocalizzi in intenzioni di significato riassuntive della personalità di Adina. Un’Adina, in quel caso, tratteggiata in modo più forte del solito dalla regia di Michieletto: proprietaria disinvolta di un bar nel lido, dominante, moderna, navigata. Invece, nella Fille du régiment la regìa di Filippo Crivelli, all’interno della collaudata impostazione di Zeffirelli, non sembra sollecitare nei cantanti un particolare scavo oltre i termini della routine. Negli acuti e nei sopracuti, per buona parte del primo atto la Rancatore resta ben presente nell’emissione ma leggera nell’intenzione, tra ludica e ginnica: distante da una resa personale del personaggio e senza annotabili intenzioni di senso musicale nei gorgheggi. L’ispessimento della voce e una qualche perdita di precisione nelle zone più alte possono essere rilevate da chi enfatizza i fatti di pura vocalità nelle interpretazioni dei cantanti. C’è anche questo, certo, ma non in misura tale da motivare quella carenza di caratterizzazione, che sembra per lo più frutto di adattamento a binari delineati. Per fortuna nelle parti più sentimentali la qualità di interprete della Rancatore riprende quota, segnando nel complesso una buona prestazione.
Più continuo è Celso Albelo nel ruolo di Tonio, ma rispetto all’intensità musicale e alla superba prestazione scenica vista in Elisir sembra quasi un altro. Spicca un po’ di più Vincenzo Taormina come Sulpice mentre, nel ruolo della Marchesa, Francesca Franci canta bene e assicura una buona prestazione anche alla sua corposa presenza nei dialoghi, dove Crivelli lascia il segno di una solida conoscenza dei meccanismi del comico. Con la direzione efficiente e vitalisticamente accesa di Benjamin Pionnier lo spettacolo va a buon fine con successo, ma a volte la grevità della concertazione di Pionnier rilancia indirettamente la domanda sospesa: questo allestimento avrà fatto il suo tempo? Il sospetto resta, anche alla luce del fatto che qualche pesantezza nelle gag innescate dai dialoghi, divertenti di per sé, stride con l’atmosfera della messa in scena zeffirelliana, che apre a più delicati tornanti estetici.