La regìa anni cinquanta, il set di una Napoli stilizzata, le citazioni cinematografiche costruiscono un Rossini ben godibile e intelligentemente interpretato. Buono il cast nel complesso, spicca Regazzo nel ruolo di Prosdocimo
di Elena Filini
SELIM ALIAS LO SCEICCO bianco si aggira sicuro di sè per le strade d’Italia. Il buongiorno a Napoli ha la faccia, prima che di una bella donna, di una fumante pizza margherita. E come nella frase cult “Maccherone, m’hai provocato”, il Turco non mette molto ad inebriarsi dei piaceri della “Bella Italia”. Conoscerà poco dopo il suo sbarco una maggiorata niente male, un po’ Sofia Loren, un po’ Malafemmena, tenuta con esiti alterni a guinzaglio da un attempato e noioso marito ed insieme da un cicisbeo un po’ gagà e, per l’appunto, Narciso.
La fresca regìa di Federico Bertolani coglie opportunamente quanto il Turco si distanzi dal comique absolu del Rossini di Italiana, Cenerentola e Barbiere. Commedia borghese sì, ma con piglio brillante: l’esile trama di Prosdocimo e del suo dramma con turchi innamorati e italiane spregiudicate è così valorizzata da una messa in scena anni Cinquanta di gusto cinematografico. In una Napoli stilizzata, evocata dalle scene a pannelli di Giulia Zucchetta e dai costumi di Federica Mani, vanno in onda i tentativi di adulterio di Donna Fiorilla tra sciantose, guappi e amarcord cinematografici da Una giornata particolare e il Turco napoletano.
La compagnia di canto asseconda con verve e innegabile talento scenico i giochi teatrali. Le fila sono affidate a Prosdocimo, che è un Pirandello un po’ stralunato e ha un’arma segreta: una piccola macchina da scrivere telecomandata che si aggira per il palcoscenico. Lorenzo Regazzo torna al Teatro Comunale con l’opera che segnò il suo debutto sulle scene, quel Turco che lo vide vincitore del Concorso Toti dal Monte nel ruolo di Selim e gli dischiuse i grandi teatri internazionali nel repertorio mozartiano e rossiniano. Indiscutibile la sua prestazione: il personaggio di Prosdocimo ben gli si attaglia vocalmente e, con qualche contenimento, scenicamente. Francesco Ommassini dimostra anche nel repertorio rossiniano il suo talento: già l’ouverture è un prodotto finito e sorvegliato, sia sotto il profilo strumentale sia nella lievitazione dei volumi che questo stile impone.
Comprensibile invece ma non sempre condivisibile la scelta di proporre integralmente la partitura: lo spettacolo – considerati anche gli inserti nei recitativi – arriva alle tre ore, non appieno giustificate dalla musica di Rossini, che nel Turco non è sempre ai massimi livelli. Cinzia Forte, pur disegnando un personaggio frizzante e a tutto tondo, forse a motivo della scrittura molto centrale del ruolo, non pare vocalmente a proprio agio come donna Fiorilla: l’esordio è un po’ sfocato; il secondo atto la vede irrobustire la prestazione ottenendo un buon consenso nell’aria finale «Squallida veste». Il canto è sempre levigato ed elegantissimo, purtroppo il volume un po’ penalizzato nella dinamica con la buca. Spassoso e tonante il Selim di Marko Mimica, perfetto e, nonostante il timbro un po’ chiaro, finissimo caratterista Giulio Mastrototaro come Geronio: voce ottimamente proiettata, spassosa vis comica. Cecilia Molinari mette in luce, nel ruolo di Zaida, il suo bel colore brunito. Decisamente buone sorprese anche nel côté tenorile: David Alegret quale don Narciso fa valere una linea di canto immacolata e grande sicurezza negli acuti mentre il giovanissimo Albazar di Pietro Adaini strappa, nella sua aria da sorbetto,un convinto applauso per una natura vocale davvero ragguardevole. Non sempre a piombo nella meccanica delle agogiche rossiniane il coro Amadeus; una nota di merito alla varietà dei recitativi proposti al cembalo da Gianni Cappelletto.
Concordo sul fatto che la rappresentazione sia stata ben fatta, cantata e recitata. Veramente gustosi gli intermezzi al clavicembalo. Personalmente, nella serata alla quale ho assistito, non sempre Selim mi è parso a tempo con l’orchestra che ben diretta dal Maestro Ommassini, non ha suonato male (a Treviso ultimamente non sono mancate compagini molto più sgangherate). Punto dolente, a mio avviso, la pochezza numerica della stessa che, purtroppo, nell’overture non è mai riuscita a raggiungere quell’intensità “da tirar giù il teatro” che il crescendo Rossiniano meriterebbe. In tempi di ristrettezze non credo si sarebbe potuto chiedere di più di quel che si è avuto. Bravi.