L’oneroso titolo belliniano torna nel capoluogo toscano, in una la lettura che soffre d’inadeguatezza tecnica e stilistica a dispetto dei belcantisti Pratt e Siragusa
di Francesco Lora
CHI HA PAURA DEI Puritani? Nel repertorio operistico vi sono titoli da far tremare i polsi per difficoltà d’esecuzione, e l’ultimo capolavoro di Vincenzo Bellini non concede sconti. Preoccupanti scosse d’assestamento artistico hanno accompagnato, dall’annuncio dello spettacolo alle rappresentazioni effettive, la locandina delle sei recite in scena all’Opera di Firenze (28 gennaio – 10 febbraio): tra le altre cose si sono perse le tracce del concertatore designato (Giacomo Sagripanti, talentuoso e scrupoloso e qui rimpianto) e di entrambi i primi tenori previsti (Yijie Shi ed Edgardo Rocha, ciascuno con le sue referenze). Al pettine sono venuti i nodi di uno spettacolo titubante e indolente, in perigliosa discesa d’attenzione dall’esordio verso il congedo. Soprattutto nella prima metà dell’atto I si ammira la prestanza dell’Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino, che restituisce spavaldamente prospettiva alla più brillante strumentazione uscita dalla penna di Bellini. I pregi vengono anche dalla direzione di Matteo Beltrami, che dà tempi spediti, spiega fraseggi naturali e insinua rubati di studiata dottrina. Poi inizia, viepiù caricandosi d’ansia e fra tremendi colpi di forbice alla partitura, la rincorsa di una compagnia di canto deficitaria su fronti diversi.
In sé suggestivi sono l’orizzonte nebbioso e l’incombere del catino absidale di un coro gotico
Jessica Pratt ha le carte in regola per essere un’Elvira di rango: lo premettono l’emissione ferma, il timbro omogeneo, il piglio caparbio, la vocalizzazione scaltrita; ma ella passa nel volgere di pochi giorni dalla Giulietta dei Capuleti e i Montecchi al Teatro La Fenice a una parte assai più esigente e stancante, senza forse che un adeguato periodo di prove le abbia procurato il necessario senso di sicurezza; alle distrazioni veniali si aggiungono così, come non le è consueto, tensione e circospezione, le quali irrigidiscono il registro acuto e relegano in difesa l’esibizione virtuosistica.
Infelice è l’accostamento del temperamentoso soprano ad Antonino Siragusa come Arturo. Manca fra loro la continuità di principii tecnici e stilistici: il tenore messinese ha porgere tanto apertamente cordiale quanto espressivamente monocorde, spessore prossimo all’evanescenza, facilità nel reggere l’acutissima tessitura ma fibrosità nell’esibirne le vette sopracute. Nemorino fatto e finito, gli mancano i prerequisiti per risultare un Arturo attendibile. Benché convenzionali, da lui vengono però i momenti meno tesi della serata: si allude in particolare alla romanza dell’atto III, dove la maniera del narratore supera la psicologia del personaggio e mette in luce doti comunicative sgravate da oneri attoriali.
L’estraneità alla parte sconforta soprattutto in Massimo Cavalletti come Riccardo. La grana naturale della voce è considerevole per risonanza e acuti a portata di mano, ma l’emissione è ingolata, l’intonazione è incerta, lo stile è grossolano oltre ciò che il ruolo del vilain può ammettere; e il canto fiorito, sollecitato sia nella cabaletta sia nella sfida ad Arturo, si ferma a uno stato di impacciato abbozzo. Si coglie buona volontà interpretativa nel Giorgio di Riccardo Zanellato, ma anche in questo caso la ruvidezza dell’emissione sottrae nobiltà al personaggio ed eleganza alla musica. La solida professionalità di Rossana Rinaldi garantisce la tenuta della parte d’Enrichetta.
Il nuovo allestimento scenico – coprodotto con il Regio di Torino, ove sarà ripreso nell’aprile prossimo – reca le firme del regista Fabio Ceresa, dello scenografo Tiziano Santi e del costumista Giuseppe Palella. In sé suggestivi sono l’orizzonte nebbioso e l’incombere del catino absidale di un coro gotico; meno accattivante, se non si ha in mano il pennello del Veronese, è il viola osato nei costumi femminili, e così pure l’usuale ricorso a cappotti per gli altri; suscita invece ilarità la gratuita fuoriuscita di cadaveri ambulanti dalle tetre tombe a terra. Siamo alle solite: nel programma di sala, il regista fornisce al pubblico un’excusatio non petita circa la propria lettura; anziché lavorare con i cantanti e renderli attori, li abbandona secondo didascalia alla loro modesta abilità personale; si dedica, per contro, ad aspetti applicati al testo anziché indagati in esso. In questo caso, tutto si focalizza sui concetti di tempo ed epoca, l’uno come vissuto dai personaggi (nei metaforici «tre secoli» d’attesa di Elvira, il tetto del coro gotico è frattanto crollato) e l’altra come presentata alla platea (i costumi sono ottocenteschi e l’architettura risale a secoli addietro). Ma a Ceresa scappa poi scritto che il soggetto medio-secentesco dei Puritani «ricorda molto più da vicino il medioevo ottocentesco di Lucia e Trovatore che non il dramma storico di Maria Stuarda e Devereux». Peccato che l’azione della Lucia di Lammermoor si svolga, con abbondanti connotazioni, mezzo secolo dopo quella dei Puritani: e la frittata è fatta.
Recensione arguta e informativa come sempre. Non vedo l’ora di assistere alle recite qui a Torino, con direttore e cantanti ben diversi e con esiti probabilmente migliori.