Lunga intervista esclusiva al pianista e compositore torinese. Nel 1994 vinse il Concorso pianistico internazionale Umberto Micheli: a poco più di vent’anni dall’inizio della sua carriera le riflessioni e i percorsi in un musicista anti divo che non ha mai smesso di evolversi
di Marco Testa foto © Silvia Lelli
GIANLUCA CASCIOLI CI ACCOGLIE NELLA SUA ABITAZIONE, in un luogo presso i pregevoli colli innevati del capoluogo piemontese, con la consueta cortesia. L’ampia sala dove avrà luogo la nostra conversazione trabocca di libri e spartiti, manoscritti inediti, cd, microfoni e quant’altro. Vicino al suo Steinway alcune foto lo ritraggono insieme a Claudio Abbado, che ebbe modo di conoscere già in giovanissima età. Oggi Gianluca Cascioli, trentacinquenne, pianista di fama internazionale, alterna gli impegni del concertista a quelli del compositore, attività che assorbe grossa parte delle sue energie, senza che questo gli impedisca di trovare il tempo per continuare a incidere dischi, come l’ultimo cd mozartiano che lo vede tornare all’etichetta Deutsche Grammophon.
In una composizione musicale, la forma è come un percorso … si va da A a B seguendo determinati percorsi ed attraversando varie fasi. Un percorso non è qualcosa di interpretabile, è semplicemente qualcosa che può riuscire oppure no. Le dissonanze e le loro risoluzioni, i movimenti melodici ascendenti e discendenti, le sequenze e le ripetizioni sono tutti elementi chiari, oggettivi
Nella sua ultima registrazione per la celebre etichetta tedesca salta subito all’occhio la coesistenza tra brani celebri e altri decisamente meno eseguiti del repertorio mozartiano, ad ogni modo ugualmente interessanti.
«Tra queste vi sono la Sonata K 310 in la minore e la K 333 in si bemolle, entrambe molto famose in effetti, ma anche il Preludio e fuga K 394 in do maggiore, una composizione sicuramente meno nota ma non meno degna di interesse. Probabilmente Mozart la scrisse anche perché invogliato dalla moglie Constanze, che a un certo punto della sua vita sembra non desiderasse altro che ascoltare delle fughe. Si tratta di un brano singolare nel panorama mozartiano: l’impronta di Bach è molto presente.»
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Negli ultimi anni della sua vita il compositore salisburghese ci appare in effetti particolarmente attratto dalla scrittura contrappuntistica; pensiamo alla fuga del Kyrie nel Requiem…
«…o all’Ouverture del Flauto Magico. Di certo in quel periodo Mozart approfondì parecchio lo studio della musica di Bach. Fece persino alcune trascrizioni dal Clavicembalo ben temperato [Cascioli si riferisce alla trascrizione per quartetto – K 405 – di 5 fughe del secondo libro del Clavicembalo ben temperato, precisamente BWV 871, 874, 876, 877, 878, ndr]. Questa tendenza si riscontra, inoltre, negli ultimi Quartetti, nell’ultimo movimento della sinfonia Jupiter o nell’ultima sonata (K 576 in re maggiore), nella quale Mozart adottò una scrittura chiaramente contrappuntistica.»
Esiste un motivo particolare per cui ha scelto di registrare proprio questi brani?
«Si tratta semplicemente di alcune tra le composizioni mozartiane sulle quali ho avuto modo di riflettere meglio. Non direi vi siano altri motivi particolari.»
La scrittura delle sonate mozartiane, nel loro complesso, è piuttosto omogenea. Certo niente a che vedere con la maturazione che ci sarà tra il primo e l’ultimo Beethoven.
«Naturalmente c’è una forte maturazione espressiva e tecnica in Mozart, questo è evidente, ma non vi è uno stacco tanto netto come accade invece tra il primo e l’ultimo periodo stilistico di Beethoven. Direi che in questo caso non è l’apparenza quello che fa la differenza quanto la sostanza delle idee che c’è dietro. Però ciò che li accumuna, come già sottolineato precedentemente, è un accresciuto interesse per il contrappunto nella parte conclusiva della loro vita. »
A proposito di Beethoven: indiscusso genio della forma, non sembra però sempre facile comprenderne appieno le intenzioni, fors’anche trovare una piena coerenza all’interno di certe sue composizioni (mi riferisco sia al punto di vista dell’ascoltatore che a quello dell’interprete). Si fa troppo poca analisi?
«Una volta Wagner, dopo aver ascoltato una brutta esecuzione della Nona Sinfonia, affermò: “In quel momento dubitai di Beethoven”. Ma per l’appunto ciò dipende esclusivamente da un’esecuzione non corretta. È molto facile rovinare una forma musicale. Per farlo è sufficiente violare i rapporti di tempo, dacché ne deriverà che i vari elementi non saranno più nella giusta relazione tra loro: il climax finirà per spostarsi e nel frattempo l’attenzione dell’ascoltatore sarà già caduta da tempo, facendo sembrare il pezzo lungo, noioso. Nel caso di Beethoven, la sua forma è ineccepibile, miscuglio di fantasia, capacità di organizzare il materiale e di trarre qualcosa di interessante da una singola cellula… In Beethoven l’interesse non cala mai.»
Qual è il punto di vista dell’interprete? Come deve comportarsi, l’esecutore, davanti a un brano?
«Dev’essere innanzitutto molto umile davanti al compositore, umiltà che origina da una grande ammirazione per il compositore stesso. L’interprete può sì valorizzare, ma anche danneggiare. È un mestiere difficile, pericoloso persino. Occorre ritornare al pensiero dell’autore e cercare di capire quali fossero le sue intenzioni. Ad esempio, Busoni faceva delle scelte interpretative a volte singolari, ma certo vi si ravvisava una testa pensante, in grado di analizzare la partitura in maniera ineccepibile. Quando nascono da un ragionamento basato sulla composizione stessa, anche le interpretazioni più strane possono risultare in qualche modo corrette, viceversa anche una singola libertà presa da chi non ha capito cosa sta suonando può risultare devastante. Nonostante l’importanza dell’ interprete, un ruolo chiave indubbiamente nella trasmissione del messaggio musicale, ritengo che i veri geni siano i compositori. Gli interpreti sono solo dei mediatori. A mio avviso, la società odierna pone una attenzione mediatica davvero esagerata sugli interpreti, sopravvalutando di molto il ruolo degli esecutori. L’attenzione dovrebbe nuovamente spostarsi sui compositori, sulle loro opere anche meno note e sulle più belle ed interessanti composizioni che vengono scritte al giorno d’oggi. »
Ritiene quindi che l’interpretazione possa essere oggettivabile?
«Quando eseguo un brano tento di ridurre il mio arbitrio, riflettendo anche sull’insegnamento di un direttore d’orchestra che amo moltissimo: Sergiu Celibidache. Credo di avere imparato molto approfondendo il pensiero di questo immenso musicista – Celibidache era fermamente convinto che nella musica vi fossero degli elementi oggettivabili. Il che non ha nulla a che vedere con l’osservazione rigorosa del segno scritto. Il termine “oggettività” va inteso in altro modo. In una composizione musicale, la forma è come un percorso … si va da A a B seguendo determinati percorsi ed attraversando varie fasi. Un percorso non è qualcosa di interpretabile, è semplicemente qualcosa che può riuscire oppure no. Le dissonanze e le loro risoluzioni, i movimenti melodici ascendenti e discendenti, le sequenze e le ripetizioni sono tutti elementi chiari, oggettivi. Da questo riusciamo a dedurre come si alternano le tensioni e le distensioni nella micro-struttura così come nella macro-struttura di un brano. Questa alternanza di tensione e distensione è un elemento fondamentale per la comprensibilità di un messaggio musicale. Per me è incomprensibile una esecuzione che esprima una tensione continua, senza mai “risolvere”. Siamo esseri umani ed abbiamo bisogno di respirare, è necessario “articolare” il discorso per essere compresi! Naturalmente esiste un aspetto soggettivo nell’esecuzione. Per fare un esempio semplice e banale, io posso realizzare la risoluzione di una dissonanza in un certo modo mentre Lei in un altro, ma non potremo considerare la dissonanza come consonanza e la sua risoluzione consonante come una dissonanza. Questo ci condurrebbe ad una esecuzione arbitraria. Una intuizione geniale di Celibidache riguarda il tempo. Per lui il tempo è una condizione, grazie alla quale è possibile ricondurre all’ unità una molteplicità di dettagli. Ecco che la velocità dell’ esecuzione diventa profondamente legata all’espressione e può e deve variare a seconda delle condizioni dell’acustica, del modo di suonare e anche in relazione alla massa orchestrale impiegata. Naturalmente ho espresso tutto in maniera molto semplice, semplificando molto i concetti. Il pensiero di Celibidache è assai profondo e complesso e talora sfugge a qualsiasi definizione, era basato sulla fenomenologia del suono e non può essere riassunto brevemente in questa intervista »
La sua carriera inizia nel 1994 allorché vinse il Concorso pianistico internazionale Umberto Micheli. Sono passati più di vent’anni, lei allora ne aveva appena quindici. Quel concorso le spianò la strada, facendola conoscere al grande pubblico. La giuria era composta da veri e propri monumenti viventi, tra cui Berio, Pollini, Charles Rosen…
«…ed Elliott Carter, George Benjamin, Lucchesini, Lortie, Accardo, Filippini (questi ultimi due in giuria per la prova da camera) e altri ancora. Elemento peculiare di quel concorso era l’attenzione dedicata non, com’è tipico nei concorsi pianistici, ad autori quali Chopin o Liszt, quanto piuttosto a Beethoven e ai compositori del ’900.»
Cosa suonò in quell’occasione?
«Nella prima prova eseguii le famose 32 Variazioni in do minore di Beethoven e i Klavierstücke op. 23 di Schönberg. Nella seconda prova le Bagatelle op. 126 e la Fantasia op. 77, entrambe di Beethoven. Nella terza prova eseguii sei studi di Debussy e due di Ligeti, mentre in quella di musica da camera suonai il Trio Arciduca di Beethoven. Nella finale del concorso, oltre a riprendere alcuni brani presentati nelle prove precedenti, suonai Incises di Boulez e la Sonata op. 1 di Berg, per un totale di circa un’ora. In realtà, curioso che possa sembrare, io e il mio insegnante [Franco Scala dell’Accademia pianistica di Imola, ndr] decidemmo di partecipare al Micheli un po’ per gioco e soprattutto per lavorare su quel programma (programma che, come si può notare, era largamente improntato sul repertorio tedesco). Dal concorso in sé non ci aspettavamo assolutamente nulla.»
Dopo la vittoria del Micheli la sua carriera prese il volo e Lei iniziò subito a lavorare a qualche disco di una certa importanza, venendo presto a contatto con alcuni tra i massimi direttori d’orchestra del pianeta, tra cui i nostri Muti e Abbado. A proposito di Abbado, è appena trascorso un anno dalla sua scomparsa. Lei ha avuto modo di conoscerlo piuttosto bene, vorrebbe condividerne un ricordo con noi?
«Abbado era sempre molto cordiale, si faceva dare del tu da tutti, dall’orchestra, dai solisti… Detto questo, però, prendeva lui le decisioni, sebbene sempre con gentilezza. La sua cordialità faceva un tutt’uno con il suo gesto estremamente espressivo e musicale, che rendeva tutto semplice e perfettamente amalgamato; gli eccellenti risultati che ne scaturivano, lo ripeto, nascevano quasi esclusivamente dal suo gesto, più che da tante parole. Non so come facesse! Indubbiamente si era stabilita negli anni una grande sintonia tra lui ed i Berliner e si capivano “al volo”. Fu purtroppo segnato dalla malattia. Ricordo che quando arrivammo a Tokyo, per una tournée con i Berliner, fu immediatamente ricoverato. Il solo viaggio l’aveva fortemente debilitato. La notizia della sua morte mi ha profondamente scosso, perché ho avuto la sensazione che sia morto con lui un vecchio modo di fare musica (al quale sono molto affezionato e legato), un modo che forse non tornerà più !»
Anche Lei ha avuto modo di acquisire una certa esperienza con la bacchetta…
«Ma francamente non sento di potermi reputare un direttore d’orchestra. Certo è che collaborare con tanti direttori mi ha molto aiutato, facendomi rendere conto di quanto sia difficile, di quali elementi psicologici, oltre che tecnici, vi entrino in gioco.»
Eppure il 14 dicembre 2009, nella sala del Conservatorio di Torino, alla prima assoluta del Terzo Concerto per pianoforte e orchestra di Alberto Colla (sul quale torneremo), lei diresse l’orchestra e contemporaneamente sedeva al pianoforte...
«Suonare e dirigere allo stesso tempo è un qualcosa di veramente molto difficile. Difficile semplicemente perché il pianista-direttore deve assicurarsi che tanto la parte pianistica quanto quella orchestrale siano entrambe curate al massimo. D’altra parte in quell’occasione era ancora fattibile perché si trattava di un’orchestra di soli archi. Ma per dirigere e suonare allo stesso tempo occorre anche poter disporre di un’orchestra abituata a non essere diretta ogni secondo, che abbia insomma una certa autonomia.»
Lei è abituato ad avere a che fare con l’orchestra anche in qualità di compositore. In tale veste ha vinto, tra le altre cose, il Premio Mozart nel 2010 (la giuria era presieduta da Ennio Morricone) per la sua Fantasia per pianoforte e orchestra; sue composizioni sono state eseguite in tutta Europa da prestigiose orchestre, tra cui l’Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino e l’Orchestra del Teatro Regio di Torino. Quando ha avvertito l’esigenza di scrivere musica?
«Diciamo che i primi esperimenti risalgono a quando avevo otto anni. Certo era un po’ un modo di giocare, ma già avvertivo un impulso a doverlo fare. Il mio interesse per la musica è stato sin dall’inizio legato alla composizione. Quando ascoltavo Mozart o Beethoven provavo il desiderio, un giorno, di scrivere qualcosa di simile. Pensavo più a questo che non all’esecuzione, se devo essere sincero.»
Non è possibile separare il Cascioli pianista dal Cascioli compositore.
«I due campi, indipendentemente dal valore di quello che faccio, si autoalimentano. Quando scrivi ti rendi conto che devi scrivere ciò che senti con una notazione che è quella lì, rigida, una notazione che non ti permette di dare le nuances che vorresti; poi arriva un’altra persona (l’interprete) per suonare quello che hai scritto e lì accade qualcosa: ti accorgi che magari ha pure rispettato quello che hai scritto, ma non ne ha capito il senso, quello che c’era dietro, quel “vissuto”, per dirla ancora con Celibidache.»
Diversamente sarebbe avvenuto diciamo intorno al 1850 o anche dopo (grosso modo sino a Rachmaninov), perché ancora non era avvenuta quella scissione, così novecentesca, tra interprete e compositore.
«In questo c’è del vero. Certo è che quel senso che il compositore vede e attribuisce al brano che egli stesso ha composto, l’interprete può benissimo non percepirlo. Esiste la speranza che un altro essere umano possa comprendere il vissuto di quel brano. Nel caso in cui l’interprete assimili quel vissuto, potrà magari offrire un’interpretazione differente del brano, ma l’importante è che rimanga comunque legato al vissuto del brano stesso. Se invece non ha capito nulla e si limita a leggere bene ciò che c’è scritto, può comunque rimanere molto lontano dallo spirito dell’opera. E lo spirito dell’opera non è la carta (e ciò vale anche per un compositore “oggettivo” come Stravinsky…è sufficiente ascoltare le sue stesse esecuzioni, per rendersene conto).»
Interessante che lei possa condividere tale problematica sia dall’angolatura del compositore che da quella dell’interprete, ritornando alla questione della scissione tra pianista e compositore avvenuta durante il secolo XX. Il suo caso non mi sembra quindi di secondaria importanza rispetto al tema che stiamo affrontando, a maggior ragione nel panorama di oggi, dove la separazione dei ruoli mi pare vada esasperandosi.
«La differenza è che da compositore ti chiedi: “come scrivo questa idea? Come la noto?” Mentre da interprete ti domandi: “dunque, cosa avrà voluto dire il compositore?”. Vedere la cosa da due angolature diverse è utilissimo. Tuttavia aveva anche ragione Michelangeli nel dire che è già difficile fare una sola cosa bene nella vita. In realtà avrei anche un certo interesse per la direzione, ma non posso sperequare le mie energie in troppe cose contemporaneamente; vorrei continuare a occuparmi di ciò di cui mi occupo con un minimo di qualità. E penso che comporre in modo qualitativamente apprezzabile richieda molto, molto tempo.»
Tra i musicisti di cui è stato allievo può annoverare il compositore alessandrino Alberto Colla, con cui successivamente ha avviato una sorta di sodalizio.
«Ho studiato composizione a Torino con Alessandro Ruo Rui, persona carissima, poi però a un certo punto ho dovuto seguire maggiormente gli impegni pianistici. Solo in seguito ho trovato il tempo per ricominciare a comporre, anche perché era diventata un’esigenza mostruosamente impellente. In questo periodo è nato effettivamente un sodalizio con Colla, che ho conosciuto in America, a Los Angeles (mi sembra nel 2002). Io mi trovavo lì per suonare un concerto di Mozart, e nella stessa occasione veniva eseguito un suo poema sinfonico, Le rovine di Palmira. Fui immediatamente colpito dalla sua musica. Rimanemmo in contatto ed ebbi modo di conoscere sempre meglio i suoi lavori, sino a quando nel 2007 cominciai a studiare composizione con lui. Forse questi sono stati gli anni migliori per la mia formazione musicale. Colla non è solo un grande compositore, ma è anche un didatta eccellente e credo effettivamente di aver fatto dei progressi con lui. La sua conoscenza dell’armonia e di tutte le tecniche possibili ed immaginabili, è a dir poco sconcertante. A breve usciranno due suoi testi sull’ armonia e sulle tecniche del Novecento (per l’editore Carisch) estremamente interessanti, elaborati con incredibile coerenza e dottrina. Attualmente, in Italia non esiste nulla del genere, eccezion fatta per un paio di testi alquanto utili ed interessanti di Luigi Verdi sull’organizzazione delle altezze nello spazio temperato e sui Caleidocicli Musicali .»
In conclusione vorrei chiederle, dal momento che ha dedicato a Colla alcuni dei suoi brani : quanto questi brani debbono al linguaggio musicale del suo maestro? Immagino si sia rifatto alla teoria armonica della Concinnitas, che Colla adopera nei suoi brani da circa una decina d’anni e presenta caratteri simili alla tonalità. Si tratta quindi di un procedimento in qualche modo tacciabile di “tonalismo”, un po’ come sovente è stato detto della musica di Arvo Pärt ?
«Mi sento molto vicino alla natura musicale di Colla, ed i miei lavori risentono molto della sua influenza. Per quando riguarda il fatto se la teoria della Concinnitas sia tacciabile di tonalismo rispondo: si tratterebbe di un’accusa davvero superficiale almeno quanto quella mossa nei confronti di Pärt.»
Perché, a suo avviso?
«Prendiamo proprio la musica di Pärt: chi lo critica in questi termini confonde la tonalità con le triadi. Fare una triade di do maggiore o la minore non significa scrivere un pezzo tonale; piuttosto dipende da come questo accordo si sviluppa nella composizione e cosa ha intorno a sé. Dietro queste critiche c’è quantomeno della superficialità come ho già detto. Pärt non scrive musica tonale: la sua caratteristica principale è lo strutturalismo. Alcuni suoi brani sono dei veri e propri meccanismi (proprio come certa musica strutturalista degli anni ’50) eppure suonano con una espressività nuovissima, e riescono ad essere estremamente comunicativi. Spiegel in Spiegel è un ottimo esempio. Anche se la musica di Pärt può suonare arcaica, dobbiamo però ricordarci che la tecnica Tintinnabuli l’ha inventata lui, prima non esisteva. Pärt è un autore che, mantenendo le radici salde nella tradizione, ha saputo guardare avanti proiettando la musica contemporanea nel ventunesimo secolo. No, quelle critiche le trovo veramente ingiuste.»
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