Una rassegna giovane, fatta di sguardi europei ma anche una vetrina per la nuova generazione di compositori russi, alcuni dei quali raccolti nel movimento StRes (Structural Resistance Group)
di Gianluigi Mattietti
ESISTE DA TRE ANNI. Nasce dall’idea, semplice, che la musica contemporanea sia la naturale continuazione della tradizione classica. Cerca di aprire delle finestre su un mondo in continua trasformazione, dove i compositori esplorano sempre nuove strade e cominciano ad appassionare anche il pubblico russo. Il festival reMusik di San Pietroburgo è una rassegna di musica contemporanea giovane ma in forte crescita, che propone numerose prime esecuzioni in Russia delle musiche che circolano oggi nei festival europei, ma è insieme un’interessante vetrina per la nuova generazione di compositori russi che si sta imponendo sulla scena internazionale. Un caso notevole è quello del gruppo StRes (Structural Resistance Group), libera unione di compositori nata nel 2005 con l’idea di raccogliere l’eredità del movimento costruttivista, di riallacciarsi alla corrente dei formalisti russi degli anni Venti, di “rottamare” l’avanguardia di Schnittke, di Denisov, della Gubaidulina, di inventare un nuovo uso degli strumenti tradizionali, di creare un nuovo approccio con l’ascolto della musica contemporanea. I compositori che fanno parte di questo gruppo (ai fondatori, Boris Filanovski, Dmitri Kourliandski, Sergej Newski, Anton Safronov, Alexei Sioumak, Valery Voronov, si sono aggiunti nel 2008 Georgy Dorokhov, Anton Svetlichny e Vladimir Rannev) tengono conferenze, organizzano concorsi, pubblicano una rivista intitolata «Tribuna della musica contemporanea».
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Nei concerti inaugurali di reMusik, affidati all’ottimo Proton Ensemble (diretto da Matthias Kuhn), si sono ascoltati due lavori di Rannev e Newski. Vladimir Rannev, nato nel 1970, allievo di Boris Tishchenko e Hans Ulrich Humpert, era presente con una prima mondiale, Buchstabieren, originale pezzo per ensemble, molto calcolato nella forma, timbricamente dettagliatissimo, punteggiato da un pedale grave (alla Grisey), come base di ampi spettri armonici, sul quale emergeva una trama ritmica fatta di filamenti glissati, di soffi, di rumori (ottenuti anche con l’arpa preparata), che suonavano come misteriosi stantuffi. L’influenza delle avanguardie tedesche si coglieva anche nel pezzo di Newski (che ha studiato e risiede in Germania): Freeze frame (2014), per violino e clarinetto basso, si ispirava alle tecniche cinematografiche del fermo-immagine ma utilizzate per dare forma a un lavoro molto poetico, spoglio, dove gli armonici, i frammenti isolati del violino nel registro acuto, i suoni caldi e gli sporadici colpi di chiave del clarinetto basso si intrecciavano in un dialogo strumentale che arrivava all’orecchio come un sussurro dolente, a tratti rabbioso.
Negli stessi concerti è stato eseguito un pezzo radicale, estremo, molto affascinante, di Marina Khorkova, compositrice russa nata nel 1981, allieva di Lachenman, Furrer, Hosokawa, Haas, ma molto influenzata anche dallo sperimentalismo di Peter Ablinger: Aleph, ampio pezzo per ensemble scritto nel 2012 ma presentato in una nuova versione, giocava su una materia sonora compatta, rumoristica, inarmonica, molto fisica, come un enorme respiro, e in perenne metamorfosi, che richiedeva una sofisticata preparazione degli strumenti (con bulloni e mollette da bucato), con le corde grattate degli archi e del pianoforte, i multifonici dei fiati, le escursioni estreme del clarinetto basso, con l’arpista chiamata a strofinare un archetto sul polistirolo, ad accarezzare e percuotere la cassa del suo strumento, o sfregarne le corde con un palloncino di gomma. Di grande seduzione anche il nuovo lavoro di Mehdi Hosseini (trentaseienne compositore iraniano, trapiantato a San Pietroburgo e direttore artistico della rassegna), Inertia II, per le fasce dense, dissonanti, quasi elettroniche, che improvvisamente si animavano con disegni nervosi o violenti effetti di distorsione, in una trama che si faceva sempre più fitta e nervosa. Folta la rappresentanza dei compositori svizzeri (grazie anche al sostegno di Pro Helvetia) a reMusik, a partire da Hanspeter Kyburz, presente con la prima russa di Réseaux, vero e proprio work-in-progress iniziato nel 2003 e sottoposto a continue rivisitazioni fino al 2012. Pezzo raffinato e sapiente, dalla scrittura virtuosistica, ma lungo e poco originale, con la sua densa scrittura ritmica, le venature melismatiche e danzanti, la continua alternanza di zone fitte e rarefatte. Più vivo ed estroverso è parso Tempor (1992) di Gérard Zinsstag, decano dei compositori svizzeri, ginevrino, classe 1941, formatosi a Darmstadt e all’Accademia Chigiana: un pezzo costruito come un racconto in episodi diversi, basato su blocchi accordali acidi, su strane armonie, break improvvisi, violente sventagliate di accordi nel pianoforte.
E bizzarri, iconoclasti erano i lavori dei due giovani Michal Muggli (classe 1991) e Tobias Krebs (classe 1993): DICKdünnII di Muggli chiamava in causa anche il “lupofono” (una specie di Heckelphone modificato, un po’ più grave, ideato da Guntram Wolf e Benedikt Eppelsheim) che sembrava disegnare una sorta di cantus firmus su una massa sonora molot gestuale, e venata di humour; Primum mobile di Krebs suonava come una berceuse un po’ sinistra, carica di tensione, ancora con lupofono e clarinetto basso in primo piano. Il Proton ha eseguito anche due recenti lavori dei canadesi Dominique Schafer (1967) e Samuel Andreyev (1981): Vers une présence réelle… di Schafer, era concepito come un gioco di incastri timbrici, basato sulla suddivisione dell’organico in tre trii, e su tre processi distinti (crescendo, accordi, melodie), che generavano una affascinante gioco di bolle sonore trascoloranti, come un continuum caleidoscopico; La pendule de profil di Andreyev (allievo a Parigi di Allain Gaussin e Frédéric Durieux) era un pazzo rapsodico, pieno di scatti nervosi e melodie fiorite, ma decisamente meno interessante.
Ospite d’onore della rassegna era quest’anno Frank Bedrossian, esponente di punta della corrente francese del «saturazionismo». I tre pezzi eseguiti, L’usage de la parole per tre strumenti (1999), It per ensemble (composto nel 2005 ma presentato in una nuova versione), The edges are no longer parallel per pianoforte e elettronica (2013) erano altrettanti esempi del suo linguaggio musicale primigenio, gestuale, materico, basato su una costante ricerca della distorsione del suono, su materiali grezzi, asciutti, petrosi, al limite del rumore, ma con processi sonori sofisticati, trasformazioni complesse, forme levigate e malleabili. Si sono ammirate le straordinarie colate di suono di It, fatte di suoni-rumore, di scale velocissime, dominate da colori accesi, da netti contrasti, pieno di tensione, da culmini e anticlimax improvvisi; e la scrittura densa e nervosa di L’usage de la parole (affidato al francese Ensemble Linea) con i timbri e le textures spinti all’estremo, che sembrano mimare la voce umana. La panoramica sul saturazionismo francese era completata dall’esecuzione (sempre dell’Ensemble Linea) di Rokh I di Raphaël Cendo (anche lui, come Bedrossian, allievo di Allain Gaussin e Brian Ferneyhough), con il suo materiale ricchissimo, con una scrittura dal carattere gestuale, bruitistico, con scarti repentini, lunghe sezioni statiche, dense esplosioni di materia sonora. Il focus sulla musica francese era completato da pezzi storici comeAnthèmes I di Boulez, Talea di Gérard Grisey, Treize couleurs du soleil couchant di Tristan Murail.
Nella rassegna, che comprendeva anche una stimolante conferenza sull’Analisi della musica contemporanea, organizzata al Conservatorio Rimsky-Korsakov, e un concorso intitoalto a Sergej Slonimsky (vinto dall’italiano Alessandro perini con un pezzo per ensemble intitolato Seismograph: false alarm), si è ascoltato anche un nuovo lavoro di Alexander Yuryevich Radvilovich, sessantenne compositore russo, formatosi al Conservatorio di Leningrado (proprio con Slonimsky), poi a Darmstadt, animatore della scena contemporanea in Russia, fondatore nel 1989 del festival «Sound Ways»: Shoa, per sei strumenti, metteva in gioco tecniche diverse negli archi, i multifonici nei fiati (chiamati anche a suonare degli strumenti a percussione), con l’intento di creare una precisa drammaturgia, un racconto per suoni, con una texture di grande intensità espressiva, sempre più fitta e movimentata, che alla fine lasciava però il posto a un Andante lugubre, con un gioco di note ribattute e di lunghe risonanze. Un evento clou è stato il concerto del Nadar Ensemble che ha fatto conoscere in Russia i nuovi linguaggi multimediali di Stefan Prins (Generation Kill – offsrping 1) e di Simon Steen-Andersen (Studio per archi #3). Più deludente e pretenzioso il concerto dello svizzero Ensemble Batida, che presentava diversi diversi lavori di tipo aleatorio, e piuttosto inconsistenti, ad eccezione di Regards sur les traditions (1995), bellissimo lavoro pezzo per pianoforte a quattro mani di Dieter Ammann, basato su un sofisticato incastro temi connotati e di cluster, con zone velocissime e fluide, altre secche e nervose, e Drama (1995), trascinante trio per piatti di Guo Wenjing.
Una conferenza-concerto era infine dedicata a Dmitri Kourliandski, al Teatro Alexandrinsky. Il compositore russo, nato a Mosca nel 1976, diplomatosi al Conservatorio della sua città, vincitore del premio Gaudeamus nel 2003, fautore di una musica “oggettiva”, senza sviluppo, senza azione, concepita quasi come un fenomeno visivo, come marchingegno («Amo le sculture cinetiche. Mi piace qualcosa che sembra statico eppure allo stesso tempo provoca una moltitudine di pensieri. Formalmente le mie composizioni possono essere definite come un meccanismo in cui se premi un bottone si diffonde tutta la musica»), rigetta ogni suono tradizionale degli strumenti, cerca «suoni abnormi», conseguenza di gesti il cui risultato non è controllabile dall’interprete, considera gli strumentisti e gli strumenti come parti inscindibili di un unico corpo, non si preoccupa del parametro altezza, svuotando così agni organismo sonoro di elementi armonici o melodici. Ricorre a forme elementari, strutture essenziali, prive di qualsiasi connotazione tradizionale, e crea partiture grafiche che mettono i musicisti nella situazione di vagare navigare da un oggetto sonoro a un altro creando traiettorie originali. Il violinista Vladislav Pesin ha eseguito Maps of Non-existent Cities. Saint-Petersburg, parte di un ciclo per varie combinazioni strumentali (il lavoro precedente era Maps of Non-existent Cities. Paris, per fisarmonica e clarinetto contrabbasso), legato all’idea di una topografia interiore, di una vera e propria “psicogeografia” fatta di suoni: «tutti noi abbiamo la nostra relazione unica con il mondo esterno. In un certo senso la creiamo o la costruiamo in relazione con le nostre personali aspettative e preferenze. Ho sempre pensato che il processo della percezione sia simile allo scrutare nel buio – quando gli occhi si abituano al buio, appaiono le forme degli oggetti nello spazio. E non sai mai se questi oggetti siano reali o immaginari». Nella partitura grafica erano indicati solo il tempo e una serie di parametri combinatori, con precise sequenze per le quattro corde e le diverse modalità di attacco dei suoni. Era un pezzo di grande seduzione ma fatto quasi di niente, di piccoli rumori reiterati, di suoni instabili, fragili o crepitanti, al limite delle possibilità fisiche del violino, di corde grattate, di effetti di balzato, di rumori ottenuti passando i crini dell’archetto vicino al microfono.
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