In scena al Teatro Filarmonico una lettura moderna del titolo mozartiano. La regìa è di Mariano Furlani con le installazioni video degli artisti Masbedo
di Cesare Galla foto © Ennevì
L’AFFOLLATO AUTUNNO DEL FLAUTO MAGICO, in scena da Venezia a Palermo, vede anche un’altra tappa in terra veneta, in quel di Verona, teatro Filarmonico. E se è normale che fra Laguna e Lilibeo non ci si curi di particolari coordinamenti, è tutt’altra storia che il capolavoro di Mozart venga rappresentato in due distinte nuove produzioni a un centinaio di chilometri di distanza l’una dall’altra in sostanziale continuità di calendario, con le prime distanziate di neanche venti giorni. Qui il coordinamento sarebbe stato non solo opportuno, ma necessario. Non fosse che per evitare ulteriori cattivi pensieri a chi già pensa che le Fondazioni liriche dovrebbero essere meno di quelle che sono, e per evitare a costoro di riprendere le riflessioni sull’anomalia del Veneto, unica regione italiana nella quale le Fondazioni sono due. Ma tant’è. Ad onta dei proclami e nonostante tutta la buona volontà espressa in seno all’associazione dei teatri d’opera (guidata proprio dal sovrintendente della Fenice, Cristiano Chiarot), è evidente che è molto più facile programmare e coordinare le coproduzioni di istituzioni adeguatamente distanti fra loro (come si sta cominciando a fare) piuttosto che ottimizzare i calendari dei teatri confinanti. E comunque i rari casi di coproduzione sull’asse Verona-Venezia appaiono oggi come eventi eccezionali e difficilmente destinati a ripetersi.
La ricerca dell’essenzialità arriva fino a escludere che Tamino possa mai maneggiare, sulla scena, un flauto vero (naturalmente, ci pensano i video)
Posto a chiudere la stagione 2014-15, il Flauto magico veronese è spettacolo connotato tecnologicamente sulla linea del massiccio impiego del multimediale. E si può riconoscere in questa proposta una qualche continuità “ideativa” con l’esperimento riuscitissimo del Barbiere di Siviglia in versione graphic novel, andato in scena nello scorso aprile per le cure del regista Pier Francesco Maestrini e del brillante cartoonist Joshua Held. La grande differenza fra i due spettacoli sta nel fatto che quello aveva una ragione essenzialmente narrativa e “illustrativa”, mentre questo si pone su di un piano ben più sofisticato e complesso di interazione creativa, affidato com’è ai reputati video artisti Masbedo, al secolo Nicolò Massazza e Iacopo Bedogni.
È ben noto come non abbia gran senso chiedere agli artisti contemporanei più innovativi il significato delle loro creazioni. L’incisivo e decisivo intervento dei Masbedo, con i loro sofisticati video, in qualche caso vere e proprie installazioni, aggiunge dubbi più che dissiparli, rispetto agli storici e oggettivi problemi sul “senso” di un’opera come il Flauto magico, che pone da sempre una serie di severe questioni esegetiche, in relazione alla complessa stratificazione di linguaggi e livelli comunicativi, tra i poli della favola morale e del rito iniziatico. L’immaginario naturalistico sembra prevalere per larga parte del Primo atto (si passa dai grandiosi paesaggi alberati al close-up su microrganismi, in un brulicare di insetti e gemmazioni, con frequenti sgocciolii di vari liquidi, in un’ambigua separazione fra vero e finto) ma in realtà risulta fuorviante, quasi ingannevole. Nel finale primo, infatti, esplode il pessimismo quando l’ingresso di Tamino e Pamina nel Tempio delle Prove, accompagnato dalle parole speranzose del coro, è “segnato” dalla minacciosa apparizione di un simbolo di morte, un enorme e orribile teschio rotante in effetto 3D. La stessa inquietudine, quasi fatalistica, ricompare alla fine dell’opera: i due protagonisti sono vittoriosi, Sarastro esalta l’affermazione della luce, ma la stella che incombe su tutti è una specie di “nana rossa” magmatica, minacciosamente pronta a esplodere e a determinare chissà quale devastante apocalisse.
In questo pessimismo che proietta l’ombra del dubbio sull’ottimismo illuministico e massonico di Mozart e Schikaneder, si inserisce la regìa di Mariano Furlani, autore anche dei costumi in collaborazione con Giacomo Andrico, che a sua volta firma le scene. Fuori dal contesto video, lo spazio scenico è quasi astratto, con pochi elementi che scendono dall’alto e una pedana traslucida e riflettente che consente giochi illuminotecnici e ambiguità visive non banali. Il senso oratoriale dell’impostazione di cornice è esaltato dalla soluzione scelta per le scene in cui sono presenti i tre fanciulli, o genî: essi sono sempre presentati quasi come un gruppo marmoreo, trasportato su una sorta di trampolino che fuoriesce a mezz’altezza dalle quinte grazie al sollevamento di una paratìa. Gesti quasi impercettibili, solo delle mani, e abbigliamento da statuaria classica per i tre; mentre il look dei personaggi principali è di un favolistico “neutrale”, eccentrico solo per l’eleganza di cui è destinatario Papageno, che sfoggia argentee e un po’ incongrue leziosità. La ricerca dell’essenzialità arriva fino a escludere che Tamino possa mai maneggiare, sulla scena, un flauto vero (naturalmente, ci pensano i video). Il che dà allo spettacolo il crisma dell’unicità: se la memoria non ci tradisce, mai prima ci era capitato di vedere un Tamino senza flauto; neanche Damiano Michieletto, nella tanto osannata (ma in realtà non esente da pecche) recentissima edizione veneziana, gliel’aveva tolto di mano, come avviene al Filarmonico.
Musicalmente, edizione apprezzabile. Il direttore Philipp von Steinaecker sceglie tempi svelti ma non turbinosi e permette così di godere qualche colore e qualche sfumatura più di quanto in genere non avvenga al giorno d’oggi. Lo stile aulico o sublime è bel delineato nella efficace eloquenza del fraseggio (pensiamo alla scena degli armigeri, con il meraviglioso corale a due voci sostenuto da un mirabile tessuto contrappuntistico in orchestra), quello lirico e sentimentale mostra i segni di una ricerca non banale del patetico. Misurata ma non superficiale la vena comica e popolare.
Compagnia di canto equilibrata. In evidenza il Sarastro di Insung Sim, che tiene in zona grave ma non perde la duttilità del cantabile e sottolinea bene l’altera nobiltà del ruolo. Fra le voci basse, piuttosto “leggero” invece il Papageno di Christian Senn, fraseggio puntuale ma stile fin troppo controllato e fraseggio manierato. A posto sia Tamino che Pamina: lui – Leonardo Cortellazzi – è pensoso e concentrato, sempre capace di accattivante eleganza; lei – Ekaterina Bakanova – non trascura le sfumature fra empito sentimentale e interiore disperazione. Molto positive le tre Dame (Francesca Sassu, Alessia Nadin ed Elena Serra), che cantano bene insieme e singolarmente, con efficace risultato scenico-musicale; e altrettanto i tre fanciulli, delineati con precisione non frequente e tinta apprezzabile da Federico Fiorio, Stella Capelli e Maria Gioia. Infine, segnalato il rigore degli armigeri Romano Dal Zovo e Cristiano Olivieri, resta da dire del soprano Sofia Mchedlishvili, la Regina della Notte. Le note ci sono tutte, l’agilità è meglio gestita nella seconda che nella prima aria, il colore risulta omogeneo e terso, non stridente, il peso drammatico risulta poco più che accennato. Ma questa non è una novità per una parte che nei tempi più recenti ha smarrito, dal punto di vista interpretativo, la complessità espressiva della scrittura di Mozart.